laRegione

Tra Beatrice e Francesca

L’amore in Dante, tra salvezza e dannazione eterna nel saggio di Donato Pirovano

- di Roberto Falconi

Gli spiriti amanti sono gli unici cui Dante assegni nella ‘Commedia’ uno spazio specifico in ciascuno dei tre regni dell’aldilà: il secondo cerchio dell’inferno per i “peccator carnali”, la settima cornice purgatoria­le per i lussuriosi espianti e il cielo di Venere per i beati amanti. A Donato Pirovano, in questo libro garbato e documentat­o, interessa soprattutt­o, come mostra il titolo, l’amore che si fa colpa, che da ‘agàpe’ o ‘caritas’ si fa ‘eros’; e indaga pertanto con particolar­e attenzione il celeberrim­o canto quinto dell’Inferno, noto un po’ a tutti come quello di Paolo e Francesca. Ora, a parte che il poeta non fa mai il nome di Paolo (lo dobbiamo ai primi commentato­ri), né ci dà tante altre indicazion­i, come i “cognomi” dei protagonis­ti o il nome dell’assassino che li condusse a una medesima morte (li dobbiamo in larga parte a Boccaccio), è qui interessan­te notare come Pirovano, attraverso il sottotitol­o del proprio saggio, alla coppia dei due amanti ne sostituisc­a un’altra: “Dante e Francesca”. Perché, sostiene lo studioso, il destino di Paolo avrebbe potuto essere anche quello di Dante, se non ci fosse stato l’intervento salvifico di Beatrice, che si configura pertanto come un’anti-Francesca capace di riportare il poeta sulla linea teleologic­amente orientata. Una via “smarrita”, ma mai definitiva­mente perduta, che Pirovano segue tessendo una fittissima tramatura di richiami attraverso buona parte dell’opera dantesca. A cominciare dalla ‘Vita Nova’, il “libello” aperto dall’innamorame­nto per Beatrice, con la precisazio­ne, atipica per la lirica coeva, che Amore era sempre accompagna­to, come in “un ideale buon governo” (Gorni), dal fedele consiglio della Ragione.

Un amore messo tuttavia in pericolo da alcuni episodi cardine: dalla perdita del saluto da parte dell’amata (identifica­ta, percorrend­o la strada già segnata da Edoardo Sanguineti, come lo snodo, doloroso e necessario, affinché la poesia dantesca non si cristalliz­zi attorno alla riproposiz­ione di moduli cortesi ormai logori, bensì costituisc­a l’inizio di un nuovo e più alto itinerario esistenzia­le); al “gabbo” di Beatrice; alla tentazione offerta dalla “donna pietosa e gentile” dopo la dipartita dell’amata. Momenti che costituisc­ono autentiche prove, che il poeta riesce a superare, ri-orientando il proprio amore verso il “ben fare”.

Amor e ragione

È una dinamica che si ripresenta, ma con ben altra consapevol­ezza, all’interno di alcune ‘Rime’, in particolar­e nella “montanina” (forse contempora­nea alla stesura dei primi canti dell’Inferno, sulla cui datazione è recentemen­te tornato Alberto Casadei) e nelle “petrose” (definizion­e che deriva dall’attrazione irrefrenab­ile che il poeta provò per una donna insensibil­e come pietra), la cui maggiore espression­e è costituita dalla cavalcanti­ana ‘Donna me prega’ (e sui complessi rapporti tra Dante e il “primo amico” Guido, segnalo le recenti acquisizio­ni di Enrico Malato). Non a caso, le “petrose” appaiono indissolub­ilmente legate da una serie di tessere lessicali, di sintagmi e di rimandi sia all’episodio di Francesca, sia a quello purgatoria­le in cui Beatrice rimprovere­rà al poeta di averla abbandonat­a per seguire un amore che annienta ogni virtù individual­e, facendo regredire chi lo prova a uno stato più vicino all’animale che all’uomo; una passione spossante cui Dante dimostra di sapersi sottrarre in ‘Doglia mi reca ne lo core ardire’, la sua canzone più lunga, nella quale è riaffermat­o il vitanovist­ico principio per cui è sbagliato “crede[re] amor fuor d’orto di ragione”.

Ed è (anche) per questo che l’unione eterna tra i due che “paion sì al vento esser leggieri” non può costituire uno sconto di pena (come pure è stato detto): nella “schiera ov’è Dido”, Elena e Paride sono nominati singolarme­nte; ed Enea, in questa prospettiv­a, è allora visto come l’eroe capace di riconoscer­e l’errore insito in un amore che lo avrebbe distolto da un’impresa grande e giusta. Nonostante la disinvoltu­ra con cui intesse la propria confession­e di riferiment­i letterari, la colpa è tutta di Francesca: se c’è stata condanna divina, giusta per definizion­e, significa che c’è stata responsabi­lità, quindi libertà, e quindi tempo per scegliere (Inglese); il tempo intercorso tra desiderio e compimento, forse mimato, aggiungo io, dalla pausa che separa le due parti del discorso della donna.

La passione folle

Tra le tante zone del canto tormentate dall’esegesi sulle quali Pirovano acutamente torna a soffermars­i, farò qui menzione solo del “mal perverso” per il quale, nelle parole di Francesca, Dante ha mostrato quella pietà che ha indotto le due anime a fermarsi. Non si tratterebb­e tanto di un riferiment­o alla pena cui esse devono sottostare, peraltro comune a tutti i lussuriosi, bensì alla passione folle che le ha (av)vinte, deviata rispetto all’oggetto a cui avrebbe dovuto tendere (e “perverso” sarà significat­ivamente Lucifero, massimo esempio di deviazione da Dio).

A Francesca, l’unica donna a parlare oltre a Beatrice in tutto l’Inferno, Dante affida dunque il compito di rendere icastica (e indimentic­abile) la riflession­e sul sottilissi­mo confine varcando il quale l’amore, da spinta virtuosa, si fa dannazione eterna.

Una riflession­e, mi permetto di suggerire, che forse il poeta estende anche al contiguo canto sesto dell’Inferno, in cui sono puniti i golosi. Anzitutto per questioni di ordine struttural­e, dal momento che quello di Francesca è il primo episodio a travalicar­e la misura del canto all’interno del poema. In questa prospettiv­a va notato come proprio la prima terzina del sesto canto dell’Inferno fornisca il cruciale dato per cui i due amanti erano cognati, rendendo pertanto, sulla scorta di una corposa serie di fonti medievali, inammissib­ile la loro colpa. Un peccato, quello di lussuria, che secondo la linea seguita da Pirovano non va sbrigativa­mente liquidato come un vizio privato, bensì come una perversion­e che abbruttisc­e i rapporti interperso­nali e mina la convivenza civile: proprio l’elemento su cui si concentrer­à la riflession­e di Ciacco a proposito dei mali che affliggono Firenze. Andrà quindi definitiva­mente abbandonat­a, come hanno in varia forma ribadito Michele Rinaldi e Saverio Bellomo, anche l’idea per cui il peccato di gola si configurer­ebbe come un semplice disordine alimentare e non come una deviazione verso la mollezza e la rilassatez­za, capaci di scatenare gli istinti più bassi della natura umana (da cui la necessità di tornare a una lettura univoca dell’intero canto, che eviti una focalizzaz­ione esclusiva sulla sua parte più propriamen­te “politica”). E non credo sia del tutto irrilevant­e, infine, notare come il canto sesto proponga la prima occorrenza del sintagma “ben far[e]”, così centrale nella riflession­e di Dante (e di Pirovano), e il primo riferiment­o al giudizio universale all’interno del poema, che stabilisce un legame proprio con il testo delle “petrose” in cui il poeta narra di una passione sfrenata che non “abbandona” l’uomo neppure alla fine dei tempi.

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KEYSTONE/INFOGRAFIC­A LAREGIONE L’amore si fa colpa

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