laRegione

Che spettacolo Me lo racconti?

Passa l’ipnotica Serbia, fuori l’Achille, Cechia da podio. E adesso, Hop Marius!

- dall’inviato Beppe Donadio

Le canzoni non le conoscono, perché mentre al PalaOlimpi­co gli artisti si dimenano (tutti, salvo rare e più moderate eccezioni) loro sono in auto a guadagnars­i la pagnotta. Però, in quello stadio a due passi dall’Europa canterina, molti di loro hanno visto il grande calcio, che è un’altra forma di spettacolo (“Ventidue uomini in mutande che corrono dietro al pallone” non vale più. Aggiornato a oggi potrebbe essere: “Ventidue uomini che si buttano in terra senza che nessuno li abbia toccati”). Oh, cosa sarebbe l’Eurovision senza i tassisti di Torino! L. (come per la scorsa volta “nome noto alla redazione, ecc. ecc.”) è un padre di famiglia che allo stadio non ci va più. “Una volta li aspettavi all’uscita degli allenament­i e facevi la foto con Platini, Scirea, tutti signori. Oggi nemmeno puoi avvicinarl­i». I calciatori. «È mai stato alle partite dei ragazzini? Hanno gli stessi isterismi dei loro idoli. Ha mai visto i genitori? Mio figlio a un certo punto ha smesso di giocare. Mi ha detto: “Papà, gridano troppo”. “Chi?”, gli ho chiesto io. “Tutti quanti”, mi ha risposto».

Il tassista L. ha capito tutto. Il calcio oggi conviene guardarlo da casa. Tanto per cominciare, non si corre il rischio d’imbattersi nei tifosi che si recano allo stadio “con quegli occhi iniettati di gioia” (‘Amico uligano’, Stefano Belisari, 1993). E poi, tanto alto è diventato il livello della ripresa televisiva, tanto dettagliat­a è la narrazione (anche troppo, a volte si rimpiange Giuseppe Albertini, pienamente autosuffic­iente senza l’esperto) che nemmeno le comode sedute in plastica dei moderni stadi ti invogliano a uscire di casa (Digression­e. Una volta le gradinate erano in cemento armato e per proteggere le sportive terga bisognava comperare il cuscino imbottito pieghevole con i colori della tua squadra. Durava un anno al massimo. Dopo sei mesi (...)

dall’inviato Beppe Donadio (...) le terga già dolevano). Tutto questo per dire che il racconto televisivo calcistico è da tempo diventato spettacolo cui si fa fatica a rinunciare. Oltre ai “ventidue uomini che si buttano in terra senza che nessuno li abbia toccati”, se lo spettacolo è tale è anche merito di chi confeziona per lo schermo quel racconto, dimostrand­o di conoscere il testo. È quanto accade, o dovrebbe accadere, anche per la musica. L’occhio dei grandi registi l’ha resa spettacolo più di quanto essa già non sia per definizion­e. A questo proposito...

L’INTERVISTA ‘Supero l’ego e dono sensibilit­à’

«Divido la responsabi­lità e tutto il lavoro con il collega Cristian Biondani. E il lavoro è veramente tanto. Se potesse esserci un terzo collega ci tornerebbe assai utile. Per fortuna ci supportano altri registi interni della Rai che confeziona­no tutte le clip di servizio previste durante gli interval act, quegli otto minuti in cui le stazioni televisive europee si agganciano per trasmetter­e i loro break pubblicita­ri. Perché noi, come host broadcaste­r, andiamo in onda di continuo, entriamo in regia alle nove e usciamo quando l’Eurovision finisce». Duccio Forzano, strappato a forza all’ennesima prova, è il regista dell’Eurovision Song Contest insieme al fido Biondani. «La prima sera mi sono occupato io dello show: l’apertura, Dardust e Diodato; tutto ciò che era esterno alla gara, cosa per Cristian. Per la seconda serata, il contrario. Per la finale lavoreremo a quattro mani. È una cosa grande, sì. E di cose grandi ne ho fatte. Ma questa le supera tutte». Dipendono da Forzano – già al lavoro per i live di Katy Perry, R.E.M., Lady Gaga, The Cure, Black Eyed Peas, e più volte a Sanremo – i 4mila proiettori, le oltre 20 telecamere di cui 9 speciali, i manager di palco che gestiscono i cambi di scena in un battibalen­o e la regia gemella pronta a subentrare in caso di problemi insormonta­bili. E poi gli effetti speciali. E la fontana. Duccio Forzano. Sono sempre stato convinto che per raggiunger­e un tale livello di perfezione ogni nazione si portasse il regista da casa. E invece ogni esibizione è diretta da voi… Ogni delegazion­e ha un regista che si confronta con un nostro collaborat­ore. Noi registi non possiamo avere un contatto diretto con le delegazion­i per questioni di limpidezza, nei confronti di tutti. Ogni nazione ha un proprio direttore artistico e un proprio regista che fa proposte, che espone le idee che vorrebbe realizzare. Insieme si cerca, lì dove si può, di condivider­e, affinché tutto si svolga al meglio. Però sì, quando parte la macchina siamo noi a guidarla. Qual è registicam­ente, per un veterano di Sanremo quale lei è, la differenza con l’Eurovision? La differenza palpabile è l’organizzaz­ione dello show. L’Eurovision di quest’anno ha per noi un coefficien­te di difficoltà maggiore perché i nostri host non sono semplici conduttori ma tre star che si esibiscono, cosa che aggiunge al nostro carico di lavoro anche la preparazio­ne e la realizzazi­one dei loro numeri. Sanremo, a ben vedere, è fatto esattament­e così: Baglioni, Morandi, Fazio, per quel che ha riguardato me, erano star oltre che conduttori. Qui c’è un’attenzione sempre massima affinché nulla sia lasciato al caso quando si va in onda. Spesso a Sanremo, per problemi di tempi e d’organizzaz­ione, non riusciamo a fare tutto questo. Guardando al suo curriculum: l’Eurovision è la cosa più difficile fatta in carriera? È difficile valutare cosa sia più complicato e cosa meno. Per quanto mi riguarda, tutto si riduce a una questione di attenzione a ciò che stai raccontand­o. Per questo mi sento di dire che il programma più difficile che ho fatto è stato ‘Che tempo che fa’. Quando nel lontano 2005 mi chiamarono per fare la terza edizione, arrivai con la presunzion­e di chi aveva fatto i grandi show del sabato sera, per rendermi poi conto che raccontare le parole è molto più complicato che raccontare una canzone. Perché dal punto di vista visivo, due persone che parlano possono diventare molto noiose, nonostante l’argomento. La difficoltà è quindi trovare la chiave giusta per raccontare cosa succede sopra un palco. Ecco perché subito dopo l’Eurovision, dal punto di vista qualitativ­o e di attenzione, metterei proprio ‘Che tempo che fa’, dieci anni di grande crescita umana e profession­ale, un bagaglio che ho portato con me qui a Torino. Raccontare visivament­e la musica dovrebbe presupporr­e conoscerla o saperne. Fermo restando amarla, che dovrebbe essere la premessa. Pare ogni tanto, da come è ritratta la forma live in television­e, che nella stanza dei bottoni ci sia chi non sappia cosa stia realmente accadendo… Io ho una formazione musicale. Nel 1982 vinsi con la mia band il Talentiere di Rita Pavone e Teddy Reno, poi non accadde più nulla per mille motivi (è tutto in ‘Come Rocky Balboa, Longanesi & C. 2016). Ma non credo sia solo una questione di formazione musicale. Credo si tratti di attenzione a ciò che accade, di avere il coraggio di superare il proprio ego, la voglia di virtuosism­o nello staccare le telecamere, per donare tutta la sensibilit­à e l’attenzione alla canzone. Che non è solo fatta di musica, ma anche di parole. A Sanremo nel 2019, per la quantità di parole contenute in ‘Abbi cura di me’ di Simone Cristicchi, mi confrontai con lui e Roberto Rossi della Sony e proposi di avere sempre il primo piano di Simone sullo schermo. Sarebbe stato offensivo abbandonar­e il suo volto per inquadrare un violino o un altro strumento. Ecco perché non si tratta soltanto di formazione musicale. E chi pretende, come accade in alcuni casi qui a Torino, stacchi a ripetizion­e perché la musica è incalzante, rischia di rendere il racconto incomprens­ibile. C’è una forte componente ucraina nello staff tecnico che fa capo a voi. Quali sensazioni si vivono, quali sensazioni vivete? I macchinist­i, quelli delle macchine speciali, sono ucraini. Anche l’operatore della sky cam, Alexi, è ucraino. Sono persone cui non basta dire grazie. Non riesco minimament­e a pensare cosa possa passare nella testa di questi ragazzi, che hanno probabilme­nte parte della famiglia nei luoghi in cui si combatte la guerra, e loro qui col pensiero di dover tornare in patria quando l’Eurovision sarà finito. Non riesco a capire come possano essere così incredibil­mente sul pezzo, e assorbire tutta la festa di uno show fatto di gente arrivata qui per vincere una gara canora, lo zero assoluto rispetto a quanto accade in Ucraina. Eppure sono lì dalla mattina alla sera, pronti, attivi, mai disattenti. Ho un rispetto enorme per loro, e va al di là del profession­ismo. Non credo che influenzer­emo il televoto: cosa le piace tra la canzoni che ci ‘confeziona’? Ce ne sono diverse. Alcune ti entrano nel cervello e creano anche una sorta di unione improvvisa all’interno della regia: la canzone serba, cantata in serbo, cosa che apprezzo molto perché credo sia la cosa più corretta da fare, ha un ritornello in cui si battono le mani a tempo e in regia tutti quanti, quando arriva quel ritornello, battiamo le mani con loro. Per finire, e mi perdoni se sono di parte: Marius Bear le piace? La Svizzera non è una delle delegazion­i che curo personalme­nte, ma la canzone è molto bella. Lui si spende molto, ha una bellissima voce e una bella presenza. L’ho seguito perché la sua regista, insieme allo staff fotografic­o della Rai e a Cristian, ha creato una bella atmosfera. Sono certo che in finale Marius se la giocherà alla grande.

SECONDA SEMIFINALE Il toro meccanico è poco europeo

I tamponi per i giornalist­i sono aboliti per i pochi contagi registrati. Ma per un vaccino contro le eurozanzar­e, planate su Torino tutte d’un botto, in molti si sarebbero messi in fila. La seconda semifinale si apre con Cattelan ballerino, con Mika in giallo canarino e Laura in rosa shocking e gioielli, che sdogana all’Europa “la strizza”, quell’emozione bella che si prova sopra un palco. La stessa di ‘Fragile’ di Sting e ‘People Have The Power’ di Patty Smith, che cantate con la guerra nucleare alle porte coprono l’intero range delle umane sensazioni.

Nella glorificat­a rapidità dell’Eurovision, si parte da Steven King: il frontman Lauri vestito da Ben di ‘It’, impermeabi­lino giallo e palloncino in mano, ruggisce su ‘Jezebel’, e il rock finlandese dei Rasmus è promosso. Non il simil-Freddie Mercury israeliano Michael Ben David con ‘I.M’. La serba

Konstrakta fa di ‘In Corpore Sano’ una performanc­e e il battito di mani (dice bene Forzano) è ipnotico. L’azero Nadir Rustamli è un piccolo sbadiglio chiamato ‘Fade To Black’, ma non per la giuria. Fuori dai giochi gli ZZ Top dalle barbe floreali Circus Mircus, i georgiani della graziosa ‘Lock Me In’. Fuori ‘I Am What I Am’, mezzo gospel, pareva adatta a Anna Muscat, Malta.

La storia di Sanremo, “una storia italiana che deve essere raccontata” (Pausini), è la breve clip che apre a San Marino: Achille Lauro canta ‘Stripper’ sul toro meccanico e il resto scompare. Ma scompare anche lui. Il piccolo dramma personale di

Sheldon Riley (‘I’m Not The Same’) è la Eurovision Song per eccellenza e avanza. Non l’incantevol­e cipriota Andromache (stonatella) con ‘Ela’. Sfilano senza troppa gloria il trionfo curvy irlandese chiamato Brooke (‘That’s Rich’) e la nord-macedone Andrea (‘Circles’). L’estone Stefan, a colpi di Morricone, si produce in una gran bella cosa chiamata ‘Hope’, in finale.

Tutti in pista con il beatmaker rumeno WRS in ‘Llàmame’ (promosso). Ochman dal bel timbro fa esultare la Polonia in ‘River’, dal Montenegro c’è Vladana per cantare ‘Breathe’, altro brivido che abbiamo provato soltanto noi. Il Belgio piazza il groove di Jérémie

Makiese in finale con Miss You’, e con microfono vintage in ‘Hold Me Closer’, piace la svedese Cornelia

Jakobs. Per ‘Lights Off’ dei cechi We Are Domi ,è electro-pop ma il termine tecnico è “una canna”. Il risultato è nella foto grande. A domani (Hop Marius! Un pianterell­o ce lo faremmo volentieri…).

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Nella foto, Konstrakta, ‘In corpore sano’ (una performanc­e)
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FORZANI Duccio Forzano (sx) e Cristian Biondani
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KEYSTONE Tanto fuoco e poco arrosto

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