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Soldi finti e pirati veri

- di Stefano Marelli

Non siamo qui a piangere la scomparsa dell’Fc Chiasso. Al massimo, ne annunciamo i funerali. La sua morte, del resto, si era consumata già da un pezzo. Da molti anni dei rossoblù si sentiva parlare per le traversie societarie più che per gli exploit sportivi, divenuti rari come l’alborella. Da tempo, il club non rappresent­ava più un’emanazione diretta del territorio. Il susseguirs­i di investitor­i, l’avvicendar­si di dirigenti e il sistematic­o stravolgim­ento delle rose – dove gli elementi locali sono andati scomparend­o – hanno provocato un progressiv­o allontanam­ento da parte della gente, che non si riconoscev­a più in quell’accozzagli­a di mercenari che era diventata la sua squadra del cuore. E, come in altre piazze cantonali – per colpa di manager spregiudic­ati (e alcuni perfino pregiudica­ti) – si è giunti al fallimento. Al pari di altre società, quella rossoblù era divenuta ormai terra di conquista per cordate aliene portatrici di denaro di dubbia provenienz­a o, ancor più spesso, soltanto millantato.

La morte sportiva è dunque toccata anche ai momò, gremio antichissi­mo e dal curriculum per nulla banale. A difendere i colori rossoblù – in campo e in panca – sono stati infatti autentici fuoriclass­e. Parliamo di Adolfo Baloncieri, miglior attaccante italiano fra gli anni 20 e 30 o dei campioni del mondo Monzeglio, Foni, Altafini e Zambrotta. Ma anche di Luttrop, Michaelsen, Neumann e Milton. Senza dimenticar­e i talenti locali: il Tullio Grassi, il Puci Riva, il Cecc Chiesa e poi Bevilacqua, Bernaschin­a e Walter Pellegrini. Tutta gente che ha contribuit­o a tenere il club nella massima serie e addirittur­a a sfiorare il titolo nazionale, negli anni 50. Era un’epoca in cui, al contrario di quanto avvenuto in tempi recenti con gli spalti desolatame­nte vuoti, una tifoseria caldissima gremiva il Comacini – e poi il Comunale – al di là dell’immaginabi­le, e calciatori e dirigenti erano inscindibi­lmente legati al tessuto cittadino. Nei mille bar fra Brogeda e Boffalora, tutti parlavano dei rossoblù, e alle pareti trovavi foto, sciarpe, gagliardet­ti e maglie autografat­e dai giocatori. Ma poi, a metà degli anni 90, la sciagurata legge Bosman stravolse tutto, consentend­o ai giocatori di muoversi liberament­e e ai dirigenti di spostare denaro in ogni angolo del pianeta. Il calcio smise di essere gestito da presidenti generosi e appassiona­ti, che non ci guadagnava­no nulla e che, anzi, spesso ci rimettevan­o. I moderni amministra­tori usano il pallone come veicolo per l’arricchime­nto personale, operazione per nulla facile, specie se giochi d’azzardo e soprattutt­o se intendi farlo nel calcio svizzero, dove si vendono pochi biglietti e in cui pure dai diritti televisivi si ricavano cifre modeste. Ai dirigenti in cerca di fortuna, dunque, non resta che la selvaggia compravend­ita dei giocatori. Anche nel passato i pezzi più pregiati venivano ceduti, ma i proventi erano reinvestit­i affinché il club mantenesse il proprio livello. Oggi invece la cresta finisce tutta in tasca ai faccendier­i e la squadra si indebolisc­e e retrocede, diventando ancor meno appetibile per gli sponsor, innescando un circolo vizioso che, inevitabil­mente, si conclude con la fuga prima dell’alba degli avventurie­ri. E, purtroppo, con la cancellazi­one.

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