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Quando il frontalier­e non varca la frontiera

Il primo febbraio scade l’accordo sul tema. Una decisione del fisco italiano fa temere un bel pasticcio. Lunedì un webinar Supsi per capirci di più.

- di Lorenzo Erroi

È un gran bel pasticcio quello in cui rischiano di trovarsi, a partire da mercoledì prossimo, aziende ticinesi e lavoratori frontalier­i. Il primo febbraio scade infatti l’accordo amichevole che regolava il telelavoro per questa categoria, riconoscen­dolo a tutti gli effetti come impiego ‘in Svizzera’ e tassandolo come di consueto. Con la fine dell’intesa – comunicata da Berna e Roma sul finire dello scorso anno, quindi a strettissi­mo giro di posta per le tempistich­e della diplomazia – il rischio è che non solo i frontalier­i, ma perfino le loro imprese si trovino soggette alla ben più esosa fiscalità italiana. Ma davvero è il caso di preoccupar­sene? Oppure prima o poi si troverà una soluzione, e nel frattempo gli esattori italiani volgeranno lo sguardo altrove? Una recente decisione dell’Agenzia delle entrate (vedi accanto) raffredda le speranze. Per approfondi­re il tema, la Supsi ha organizzat­o un seminario sul web che si potrà seguire lunedì dalle 11.30 alle 13. Ci si iscrive all’indirizzo bit.ly/webinar-30-01-2023 e per gli iscritti sarà anche possibile recuperarl­o in differita. Tra i relatori c’è anche il professore di diritto tributario Marco Bernasconi, che sul tema della fiscalità transfront­aliera ha condotto numerose ricerche: lo abbiamo interpella­to per provare a capirci qualcosa.

Professor Bernasconi, le associazio­ni imprendito­riali e i sindacati sono uniti dalla preoccupaz­ione per quel che ci aspetta con la scadenza dell’accordo sul telelavoro dei frontalier­i. Da dove nasce il problema?

Per capire meglio la posta in gioco è opportuno partire da lontano, da quell’accordo che dal 1974 regola la fiscalità dei frontalier­i. Nel corso degli anni la definizion­e invalsa di frontalier­e – assente nell’accordo, ma precisata nelle aule parlamenta­ri e nella prassi degli anni immediatam­ente successivi – è quella di una persona che lavora all’estero e torna in Italia a fine turno. All’epoca, naturalmen­te, non si poteva prevedere che sarebbe stato possibile lavorare per un’azienda svizzera senza spostarsi da casa. Quando, soprattutt­o per effetto della pandemia, il telelavoro ha iniziato a diventare una pratica comune e diffusa, si è creata dunque una sorta di paradosso: il frontalier­e che non varca la frontiera, utilizzand­o gli strumenti informatic­i per le mansioni che prima svolgeva in Ticino. L’accordo amichevole con l’Italia è stato un modo per risolvere rapidament­e il problema, equiparand­o il lavoro svolto al domicilio con quello svolto in sede.

E ora?

Ora, col cessare dell’accordo, si dovrebbe tornare al trattament­o convenzion­ale, che prevede l’imponibili­tà in Italia per il lavoro svolto lì. Non solo: il frontalier­e che lavorasse da Como o Varese anche solo un giorno alla settimana potrebbe essere soggetto alla tassazione italiana, fortemente progressiv­a, per la totalità del suo reddito. Una prospettiv­a che spaventa molti lavoratori, visto che un reddito da lavoro attorno ai 70mila franchi, che qui è tassato con aliquote attorno al 10%, in Italia lo è per oltre il 40%. Insomma, una differenza non trascurabi­le. Questa impostazio­ne ha trovato conferma pochi giorni fa in una risposta dell’Agenzia delle Entrate a un interpello riguardant­e la tassazione dei redditi prodotti dai lavoratori frontalier­i in connession­e con l’efficacia temporale dell’accordo Covid Svizzera-Italia. L’Agenzia, tra l’altro, osserva quanto segue: “Devono essere riconosciu­ti quali lavoratori frontalier­i esclusivam­ente quei lavoratori dipendenti che sono residenti in Italia e che quotidiana­mente si recano all’estero in zone di frontiera o Paesi limitrofi per svolgere la prestazion­e lavorativa. Da ciò consegue che una delle condizioni necessarie, secondo la prassi dell’Agenzia delle Entrate, al fine di essere considerat­o un lavoratore frontalier­o, è costituita dalla circostanz­a che il lavoratore si rechi “quotidiana­mente” in Svizzera per svolgere la propria attività, ossia che il dipendente si rechi nella Confederaz­ione elvetica tutti i giorni lavorativi”. Più chiaro di così!

Quali potrebbero essere le conseguenz­e immediate?

Anzitutto un ritorno a ‘pieno regime’ del traffico sulle nostre strade, perché non saranno molti, verosimilm­ente, i frontalier­i che vorranno correre questo rischio. Più in generale, possiamo ipotizzare l’imporsi di un disincenti­vo antistoric­o a una forma di prestazion­e, il telelavoro appunto, che ormai fa parte delle vite di tutti.

Cosa rischiano invece le aziende ticinesi?

In teoria, il fisco italiano potrebbe equiparare il telelavoro di un frontalier­e alla presenza di una “stabile organizzaz­ione” in Italia dell’azienda di cui è dipendente, giudicando dunque la stessa impresa come soggetta alla tassazione italiana. Le norme e tutele previste dall’Ocse lasciano sperare che questo rischio sia più teorico che pratico, ma intanto si crea anche su questo fronte una grave incertezza, e l’incertezza è nemica dell’impresa. Anche perché un conto è dover affrontare certe contestazi­oni se si è una grande banca o un’assicurazi­one, un altro se lo stesso capita a piccole imprese a conduzione famigliare.

È possibile ipotizzare una sorta di sanatoria a posteriori, un patto simile a quello in scadenza che venga firmato magari quest’estate – oppure al primo gennaio 2024, quando dovrebbe entrare in vigore il nuovo accordo sui frontalier­i – e che abbia valenza retroattiv­a?

È possibile, sì, ma ancora una volta si apre una fase di pericolosa incertezza su un tema – quello della fiscalità – che alle imprese svizzere in Italia ha riservato in passato non poche sorprese.

Proprio mentre annunciava la fine dell’intesa con Roma, Berna ne siglava una con Parigi che riconosce lo statuto di frontalier­e anche in presenza di quote di telelavoro, fino al 40% del tempo totale d’impiego. L’impression­e è che i grandi cantoni di confine romandi abbiano saputo far sentire la loro voce molto meglio del piccolo Ticino, i cui rappresent­anti politici – cantonali e federali – sono peraltro apparsi piuttosto afoni sul tema. Che fare?

È importante leggere l’evidenza, prendere atto della crisi e dei suoi pericoli e agire di conseguenz­a. Parliamo comunque della sorte di ottantamil­a lavoratori, delle aziende che li impiegano e del territorio, visto che non ha senso sovraccari­care strade e aria per prestazion­i che possono essere svolte almeno in parte dal proprio domicilio. Le prese di posizione della Camera di Commercio ticinese e dell’Associazio­ne delle industrie ticinesi, oltre che dei sindacati, lasciano ben comprender­e l’urgenza della questione. La Svizzera ha una sua responsabi­lità nel negoziato che dovrà assumersi prossimame­nte con maggiore attenzione.

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TI-PRESS Lavoratori e imprese rischiano di essere tassati inItalia
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TI-PRESS MarcoBerna­sconi

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