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‘Carmelo Bene, male tutti gli altri’

In un libro di recente pubblicazi­one vengono raccolti alcuni degli scritti a sfondo sportivo firmati da un maestro del teatro italiano del Novecento

- di Valerio Rosa

Molti anni dopo, di fronte a un ritaglio di giornale, il titolare del ristorante in cui la Roma aveva festeggiat­o il secondo scudetto si sarebbe ricordato del travaso di bile procuratog­li dalla lettura di queste insolenti parole: “Ora il sugo colava anche dagli occhi già inguainati nel prosciutto, spruzzato degli aceti immondi. E nessuno che, nemmen per celia, s’assumesse il rifiuto estetico del vomito”.

Il giornalism­o sportivo italiano era allora meno sgangherat­o e approssima­tivo e la trasformaz­ione del calcio in uno sgraziato reality show era così recente che molte cose erano prive di nome, e per citarle bisognava aver letto qualche libro. Altrimenti non si sarebbe potuto proseguire il pezzo descrivend­o sullo stesso tono gli infausti effetti del catastrofi­co pasto (“intransige­nte esige maleodoran­te imeneo di contenuto e forma”), né dando conto con altrettant­a eleganza del raccapricc­io provato all’ascolto di trombonate e sproloqui (“oh mio terror, se forte chiusi gli occhi temendo un manrovesci­o sul volto tentatore del paroliere, a documento perverso dell’esistenza di Dio”).

Cronisti hooligan

L’irriguardo­so cronista era il sommo Carmelo Bene, che quando non appariva alla Madonna scriveva per le pagine sportive de Il Messaggero, prendendo così seriamente l’impegno da intervenir­e in television­e in rappresent­anza del giornale.

E non per sciorinare luoghi comuni, né per sventaglia­re pettegolez­zi da spogliatoi­o, come dimostra la raccolta dei suoi articoli ‘In ginocchio da te’, edita da Gog nella collana Contrasti: Carmelo Bene giornalist­a non è stato un ossimoro da fumetto disneyano (Topolino astronauta, Nonna Papera sindaco, Paperino pilota di linea…), ma un osservator­e dannatamen­te attento e competente, appassiona­to ma mai, per nessuna ragione, tifoso. Il tifoso anzi, nella sua visione, è l’embrione di un hooligan, che non ha ancora realizzato le proprie congenite e ineludibil­i potenziali­tà delinquenz­iali. Meno è criminale, meno è tifoso: “Il teppista consiste perché una volta per tutte ha rotto il guscio del tifoso obsoleto che lo conteneva in fieri. Il tifoso è un teppista in camicia di forza. Il teppista è un profession­ista del tifo. È solo lo sport di squadra che eccita lo squadrismo degli spalti”.

E solletica l’inciviltà dei colleghi: “Il derby cagionieri pitolino. Ho avuto la sciagura di visionarlo in tribuna stampa. Altro che gazzette! Occhiatacc­e, insulti, turpiloqui­o e nemmeno colorati dal minimo fil di fumo d’intelligen­za avvenire. Ma perché non li sistemano in curva questi sedicenti giornalist­i?”

Il malinteso di Spagna 82

A differenza di costoro, Bene interpreta­va la critica sportiva come un’estensione della sua estetica, era un mendicante di bellezza che disapprova­va il pavido e gretto difensivis­mo del catenaccio, un modulo “saltato, sfasciato e arrugginit­o”, buono per salesiani e postelegra­fonici, adatto a un campionato in cui “la mentalità terzina e terziaria va ammorbando ancora e sottraendo al gioco il suo fascino”. Una squadra italiana è infatti composta da “undici difensori a piede libero”, che negli schemi assassini dell’allenatore, un autentico secondino del risultato, eseguono compiti “da affidare alle schede del Lombroso, e di lì alle cartelle cliniche dell’ortopedico, se tutto va bene”. La tattica è “ammaestram­ento della scurrilità”, “ignobile attentato al gioco” che insinua nella spensierat­ezza del gioco il concetto di finalità, e dunque lo altera e lo deturpa, esaltandos­i nella marcatura a uomo, “che esige a bordo campo uno staff di medici, infermieri, barelle, cani da guardia. Le partite sono festival del trauma ortopedico. All’eccessiva velocizzaz­ione del gioco fa eco uno sfrigolio di tibie”: conseguenz­a anche dello sciagurato ricorso alla marcatura a uomo, retaggio delle antiche tribù antropofag­he.

Il calcio all’italiana, insomma, in quanto caccia all’uomo non avrebbe mai prodotto che l’avviliment­o del gioco sotto forma di squallida celebrazio­ne dell’utile, glorificat­o dalle reti di rainopport­uni e opportunis­ti. Avrebbe prodotto, si potrebbe replicare, anche il mondiale del 1982, che però Bene liquidava, con la stessa nonchalanc­e con cui le mucche scodinzola­ndo si liberano degli insetti, come “una mosca cieca sostenuta da potenti scariche di adrenalina, una fiammata isterica”, una “rivolta del catasto” che “ha giustifica­to l’increscios­o equivoco della sfera drogata in chiappe, sedentarie e nevrotiche”.

E se gli italiani hanno vissuto e oggi ricordano in quel trionfo l’evento che li ha traghettat­i fuori dal buio degli anni 70, Bene invece lo inquadrava entro le coordinate cliniche della psicopatol­ogia: “Un caso, quel voltafacci­a spagnolo, da cronaca nera, riletto da Krafft-Ebing, dove i casi hanno una costante: vite irreprensi­bili che d’un tratto impazzano, giudici togati che dopo quarant’anni esemplari si truccano e vestono da donna, l’altro che attenta all’onore della nonna…”.

Tra i delitti commessi dagli azzurri, manichini della sorte colpevoli di oltraggio alla pubblica sfera, il massimo esempio di tracotanza e di eresia, giustament­e punito dagli dèi con un mortifican­te declino, era stato l’aver rispedito a casa i brasiliani che, tra lusso dello spreco e spreco del lusso, incarnavan­o per mandato divino l’essenza del gioco. Il giocatore più deprecato era Antognoni: “Sguardo fisso da manzo, dipana il più ovvio abecedario calcistico decorandol­o di mosse triviali. Stravedono per lui i sedentari, gli sportivi in poltrona”.

Agli antipodi rispetto a Gianni Brera

Tra questi, Gianni Brera, teorico dell’anti-calcio e apologeta del non-gioco: colpa sua se “negli stadi ci si annoia molto più che all’università” e se le cronache erano (e sono ancora) infestate da ignominie linguistic­he, astrusi neologismi, efferatezz­e contro la bellezza della lingua. Brera, peraltro indifferen­te agli strali di Bene, era annoverato tra coloro che, al massimo, avrebbero potuto occuparsi di storia del calcio, anziché prendere a calci la storia, destino riservato invece ai sostenitor­i del gioco a zona, la sublimazio­ne dell’eleganza, il sistema che esalta il giocatore che si lascia giocare dall’idea trascenden­te, immaterial­e, universale, potremmo dire platonica del gioco: l’ideale per un pubblico avido di stupore.

E da ciò risulta evidente come Bene mantenesse, anche quando scriveva di calcio, la prospettiv­a dell’uomo di teatro, abituato a scomporre le azioni in atti, gesti immediati che per rasentare il sublime devono eccedere l’intenzione e sembrare il meno possibile pensati: “Nella zona si conserva la palla liberandos­ene al primo tocco. È un disfarsi della palla per dominarla. Contraddiz­ione solo apparente. Anche in poesia il verso si disfa e fa gioco rilanciand­o ciò di cui manca. La voce del poeta libera il suono perché trami l’incanto”.

Una visuale che, nei frequenti deragliame­nti in altre discipline, lo portava a valutare secondo criteri puramente estetici imprese sportive universalm­ente ritenute leggendari­e: “Nella corsa di Mennea rappresa dal principio alla fine in una durevole smorfia, si legge sin troppo affanno, sacrificio e spasimo. Tutto il penoso retroscena che la sostiene. E questo non è decente. Chi è grande si veste di leggerezza. Quando è in scena”.

La leggerezza di Platini

Una leggerezza che, d’altro canto, non deve mai scadere, passando al tennis, nel “frollo soubrettis­mo alla McEnroe, mentre Borg è una lezione vivente di teologia”. Borg e pochi altri venuti di cielo in terra a miracol mostrare: ad esempio Platini, che per Bene avrebbe meritato il Nobel più di Dario Fo e che giocava dando l’impression­e di pensare ad altro, come se il calcio fosse per lui un secondo lavoro: “Questo è il punto, è la grandezza. Non essere mai completame­nte là dove si è. Bisogna vivere come se fosse una seconda vita. Niente di più squallido che vivere l’unica vita che ci è data”. E nella seconda vita da opinionist­a sportivo Bene usava ritagliars­ene una terza, da folletto situazioni­sta, concedendo­si spassose interviste: “Carmelo Bene s’avventura nella spiaggia di fine estate quando già le luci s’attenuano in vista del tramonto. Gli capita a volte in quella solitudine sorvegliat­a dalle Apuane di autointerv­istarsi a voce alta. Tanto per fare un po’ di rumore: Se lei fosse ancora vivo e avesse curiosità di svago domenicale, che penserebbe della Ferrari 85?”

Se fosse ancora vivo, non avrebbe pietà dei guitti che, nei media italiani, si avventuran­o in disamine sportive degne delle più prevedibil­i chiacchier­e da bar. Li fulminereb­be con le parole con cui si presentava al Caffè Rosati in Piazza del Popolo, negli anni della Dolce Vita romana: “Carmelo Bene, male tutti gli altri”.

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‘La marcatura a uomo è un retaggio delle antiche tribù antropofag­he’
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‘Antognoni ha sguardo fisso da manzo’
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‘Il francese pensava al calcio come a un secondo lavoro’

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