‘Amici da sempre, li ho ascoltati’
Se “Figli di E.” riesce a distinguersi per sensibilità, ampiezza di “respiro” e capacità di indagine interiore è certamente grazie alla capacità del regista Fabrizio Albertini di coniugare il suo sguardo esterno a un’antica amicizia con i protagonisti. «La loro dimensione familiare, con Ermi, l’ho conosciuta sin da piccolo – dice alla ‘Regione’ –. Sono amico di Marta e Tazio, che è anche mio coetaneo. Nel tempo il contatto è rimasto e recentemente, nell’ambito della mia collaborazione con “Storie”, avevo pensato di coinvolgere Erminio in una produzione che fosse dedicata al territorio». Dopo la tragica scomparsa di Ferrari, prosegue Albertini, «ho mantenuto la volontà di realizzare qualcosa in quell’ambito, cercando di dare una continuità al discorso che avevo avviato con lui. A Tazio e Marta ho chiesto di darmi una mano».
Una doppia eredità
Iniziando il documentario, prosegue, «è successo quello che accade con frequenza: ovvero che si parte con un’idea di percorso possibile, ma nel confronto con le persone e le loro vite quest’idea cambia. Non ho mai pensato di fare un documentario sul lutto, ma il vuoto lasciato da Erminio nei figli era talmente grande da decidere di seguire in modo molto naturale Tazio e Marta, cercando di mettermi il più possibile all’ascolto di questo loro momento in cui avevano a che fare con un’eredità sia molto pratica (le mucche da accudire, la raccolta postuma di racconti in pubblicazione) sia più intima. Credo che fare questa scelta mi abbia permesso di realizzare comunque un film su Erminio e sul suo lavoro, e forse anche in misura maggiore rispetto a quella che poteva essere l’idea di scrittura iniziale».
“Figli di E.” è, dunque, «il frutto di un percorso durante il quale Tazio e Marta sono stati molto generosi, ognuno in linea con le proprie inclinazioni e le proprie scelte, ma sempre in un equilibrio familiare che mi sembra emerga bene dal film». Un equilibrio che si intuisce non sempre facile, ma tenuto insieme da espedienti simpatici come il chiamarsi vicendevolmente, tra fratelli, non “Marta” o “Tazio”, ma più prosaicamente “Sfiga”, come a voler abbattere sul nascere qualsiasi rischio di retorica (come Ermi insegnava).
Niente è per caso
Albertini nota poi due particolari coincidenze, «che mi hanno anche incoraggiato», emerse durante la lavorazione: «Prima ho realizzato immagini di vita contadina, seguendo un’anziana della Val Cannobina nei suoi ritmi e nelle sue abitudini legate al territorio. Nelle intenzioni doveva essere una presenza quasi rarefatta, che poi si sarebbe manifestata non lontano dal pascolo delle bestie dell’Ermi. Ma solo dopo mi sono reso conto che quelle immagini erano perfette in relazione a “Pronto soccorso”, un racconto di Erminio pubblicato nel libro postumo “Ma liberaci dal male”, di cui nel film ci sono ampie citazioni. Un’altra cosa sorprendente è che il giorno in cui nel film si racconta il trasferimento delle mucche all’alpe è stato il primo di una siccità che sarebbe durata per tutta l’estate; una siccità terminata esattamente il 2 settembre, l’ultimo giorno di riprese, quando siamo tornati al pascolo e abbiamo trovato una luce incredibile, quasi spettrale, che ci ha permesso di prendere delle immagini che avremmo poi capito essere quelle giuste da abbinare a degli estratti di “Fransè”».
Da rilevare infine l’ottimo lavoro al montaggio di Bettina Tognola: «È la quarta produzione in cui collaboriamo. Con lei c’è un’alchimia basata sull’ascolto delle reciproche esigenze. Il nostro rapporto si basa molto sulla concessione di quell’autonomia necessaria per lasciarsi sorprendere, e più in generale sulla fiducia». Evidentemente ben riposta, da entrambi.