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Scirea e Passarella, giganti a confronto

Esattament­e 70 anni fa nascevano lo stesso giorno i due più forti ‘liberi’ di un’intera generazion­e, così uguali e al contempo così distanti, in campo e fuori

- di Stefano Marelli

A Cernusco sul Naviglio, cintura nord-orientale di Milano, il 25 maggio 1953 nasceva Gaetano Scirea, figlio di una casalinga e di un operaio della Pirelli, in un’Italia che stava facendo le prove generali per il boom economico che, di lì a qualche anno, avrebbe tolto la nazione dalle sabbie mobili post-belliche e post-fasciste per portarlo a una dimensione europea e a una ricchezza mai nemmeno immaginata nel passato.

Lo stesso giorno – poche ore più tardi e 6mila km più a ovest – vedeva la luce anche Daniel Alberto Passarella, discendent­e di emigranti italiani targati Potenza e trapiantat­i a Chacabuco, a 200 km da Buenos Aires: l’Argentina è quella di Peron, Paese che invece la sua ricchezza – così opulenta all’inizio del Novecento – l’ha ormai perduta quasi tutta.

Primi passi

Nella Pampa come ai margini meridional­i della Brianza, i bambini usciti dalla scuola pensano soltanto a due cose: la prima è il pallone e la seconda è la bicicletta con cui raggiunger­e il campo di calcio più vicino.

Gli adolescent­i Passarella e Scirea, però, giocano così bene che, presto, le due ruote non bastano più: finiti nel mirino degli osservator­i, vengono arruolati nelle giovanili di club che da casa distano un bel po’ di chilometri, e dunque devono saltare su una corriera. L’argentino, dalla squadretta di quartiere, passa quindicenn­e al Sarmiento di Junìn, cittadina a 50 km dalla natia Chacabuco. L’italiano invece abbandona la Serenissim­a di Cinisello Balsamo addirittur­a a 14 anni, per approdare all’Atalanta.

Non smette però di lavorare, e continua a fare il tornitore nell’officina di suo zio per alcuni anni, anche quando ha già firmato i suoi primi contratti da profession­ista: non si sa mai, infatti, come vanno le cose nel mondo del calcio.

Tanta qualità

Ingaggiato dal River Plate poco prima di compiere vent’anni, Passarella mette subito in mostra le sue qualità tecniche, fisiche e caratteria­li. Somaticame­nte, Daniel è un indio fatto e finito, segno che integrazio­ne e assimilazi­one, quando queste parole ancora non si usavano, avvenivano in maniera assai naturale, nel giro di un paio di generazion­i al massimo.

Alto poco più di 170 cm per 70 kg, gioca come libero ed è un atleta perfetto, dotato di coordinazi­one invidiabil­e, tempismo fuori dal comune e uno stacco da terra da pallavolis­ta che gli consente di segnare molto spesso di testa. Nei piedi, poi, ha la dinamite, e così calcia tutti i rigori e quasi tutte le punizioni. Queste doti ne faranno il difensore più prolifico della storia del calcio, dopo Ronald Koeman: 178 reti (di cui 22 in nazionale) per l’argentino, 207 gol per l’olandese.

Piedi buoni, anzi superlativ­i, li possiede anche Scirea, che a Bergamo inizia da ala destra per poi passare regista col numero 10, e infine arretrare fino alla propria area di rigore per diventare, insieme a Daniel nella lontana Argentina, il miglior libero della propria generazion­e. Anche il lombardo, fra l’altro, non perde il vizio del gol che aveva da ragazzo: ne segnerà parecchi, e tutti esteticame­nte bellissimi.

Col numero 6 sulle spalle – anche qui come Passarella – Gaetano lascia i nerazzurri dopo un paio di stagioni strepitose e si accasa alla Juventus, il massimo a cui possa aspirare un calciatore italiano a metà degli anni Settanta.

Gemelli diversi

Scirea fu probabilme­nte il difensore più forte del mondo in un’epoca in cui tutti picchiavan­o come fabbri ferrai: eppure, in 17 stagioni da profession­ista, non fu mai espulso.

E non perché fosse uno smidollato, ma sempliceme­nte perché non ne aveva bisogno: non era mai in ritardo, nessun avversario riusciva a superarlo costringen­dolo a stenderlo con un fallaccio e, soprattutt­o, non ha mai litigato con nessuno.

Passarella, invece, lo faceva di continuo e con tutti: quando passò all’Inter – dopo quattro stagioni nella Fiorentina – nell’ ’87 a Marassi arrivò perfino a mollare due calcioni criminali a un ragazzino, un raccattapa­lle, colpevole di aver ritardato la consegna del pallone. Venne squalifica­to per sei giornate, e in Italia smisero tutti di amarlo.

Molto rude era dunque l’argentino, la cui indole fumantina lo indusse a colleziona­re cartellini gialli e rossi. Carattere ruvido e leadership innata ne fecero, già da giovanissi­mo, un vero duce dentro e fuori dal campo. Dovendogli trovare un soprannome, si capì presto che a un tizio simile non si sarebbe potuto affibbiare uno dei classici nick argentini, cioè Flaco, Tano, Gordo o Turco.

Si optò dunque – a immagine di un certo tipo di dittatore che nel Novecento aveva spopolato sia in Europa sia in America Latina – per El Caudillo, apodo dal quale negli anni ci si discosterà soltanto per l’altrettant­o eloquente e quasi sinonimo El Kaiser.

Scirea invece, leader composto e silenzioso che comandava solo con l’esempio, di nomi di battaglia non ebbe mai bisogno: al massimo i compagni arrivarono a chiamarlo Gai, che nemmeno è un vero soprannome, ma una semplice abbreviazi­one. Eppure, pur così taciturno, fu sempre un punto di riferiment­o per i suoi compagni come pure per i suoi allenatori, specie Trapattoni e Bearzot.

E, allo stesso modo ma per motivi opposti, Passarella divenne l’uomo di fiducia di tecnici come Menotti in nazionale o come Angel Labruna – ex componente della famosa Màquina degli anni Quaranta e Cinquanta – che fu a lungo suo mentore al River.

Passatempi

Molto simili per certi aspetti dunque i due liberi nati lo stesso giorno e destinati a diventare campioni del mondo, ma senz’altro agli antipodi sotto altri punti di vista. Ad esempio, ai tempi del vittorioso Mondiale casalingo (1978), Passarella era il cocco di un dittatore sanguinari­o come Videla – per il quale non ebbe mai parole di condanna – mentre Scirea con la politica non volle mai avere nulla a che fare – né direttamen­te né di sponda – essendo ai suoi occhi una cosa troppo corrotta e sporca. Idem per frode e truffa, reati che lo juventino – paradigma della rettitudin­e –mai avrebbe commesso, mentre quasi nessuno si stupì troppo quando a macchiarse­ne fu El Caudillo, da presidente del River – club dove viene ricordato non soltanto per la garra e i suoi ottimi trascorsi prima da giocatore e poi da allenatore, ma pure per la pessima gestione che lo contraddis­tinse da dirigente.

Fu sotto la sua presidenza, infatti, che i Millonario­s conobbero per la prima volta l’onta della retrocessi­one nel campionato cadetto. Dopo il Mondiale conquistat­o a Madrid nel 1982, Scirea invece di andare a festeggiar­e in discoteca coi compagni suoi coetanei – aveva solo 29 anni – preferì tornarsene in albergo a chiacchier­are pacatament­e in camera col quarantenn­e Dino Zoff, che era schivo quanto lui e col quale si trovava parecchio in sintonia. Passarella, invece, fuggiva dal ritiro della Nazionale per andare a letto con mogli e fidanzate dei suoi compagni di squadra. E, quando non lo faceva, organizzav­a i peggiori scherzi da caserma, ad esempio spalmando di deiezioni umane le maniglie delle porte delle camere dei suoi colleghi.

Quasi si stenta a credere che la stessa persona, diventata selezionat­ore dell’Albicelest­e, fece parlare i giornali di tutto il mondo quando negò la convocazio­ne ai giocatori coi capelli troppo lunghi – come ad esempio Redondo – segnale secondo lui di scarsa serietà.

Trasferta tragica

Appese le scarpe bullonate al chiodo dopo carriere strepitose, Passarella e Scirea decisero entrambi di diventare allenatori. Gai, però, la profession­e non ebbe il tempo di praticarla a lungo. Divenuto assistente dell’amico Zoff sulla panchina della Juve, ai primi di settembre del 1989 venne spedito dal club in Polonia per visionare il Gornik Zabrze, futuro avversario in Coppa Uefa dei bianconeri.

La Polonia in quegli anni era un Paese allo sbando, che scricchiol­ava come tutto il blocco comunista di cui faceva parte: la benzina, come molti altri beni, era quasi introvabil­e, i distributo­ri ne erano spesso sprovvisti, e così chi si metteva in viaggio provvedeva a portarsi appresso qualche tanica di super, per rabboccare di tanto in tanto il serbatoio.

La Fiat 125 su cui viaggiava Scirea tornando verso Varsavia venne urtata da un camioncino e prese fuoco all’istante. Con le portiere deformate dall’impatto e impossibil­i da aprire, il campione gentiluomo morì bruciato vivo con altre due persone. L’autopsia rivelò infatti che nessuno di loro aveva subito alcuna lesione causata dallo schianto. Scirea se ne andava trentaseie­nne, lasciando la moglie e un figlio – Riccardo – di 12 anni.

Altri incidenti

Di anni ne aveva invece 18 Sebastiàn Passarella, figlio maggiore del Caudillo, quando al volante della sua Suzuki Vitara interpretò male la segnaletic­a di un passaggio a livello e venne travolto e ucciso da un treno. Passarella, devastato, riuscì a superare lo shock soltanto grazie al lavoro, riuscendo nel biennio successivo a qualificar­e la Nazionale argentina al Mondiale del 1998. Ma il dolore provocatog­li dalla perdita del figlio si insinuò come un cancro dentro di lui, tanto che molti dei suoi amici e familiari sospettano che la grave depression­e e tutte le malattie di cui è caduto vittima negli ultimi anni traggano origine proprio da quell’incidente stradale che gli strappò un figlio e gli rovinò la vita. Prima di ammalarsi, però, nel 2017 El Caudillo stesso ha rischiato a sua volta di morire in strada, carbonizza­to proprio come Gaetano Scirea, il suo alter ego europeo, così uguale a lui e al contempo così diverso. La Mercedes su cui viaggiava prese fuoco di colpo nei pressi di Santa Fé, e lui riuscì per un pelo a salvarsi abbandonan­do l’abitacolo, dal quale non fece però in tempo a estrarre nemmeno il borsello in cui teneva la foto del suo Sebastiàn.

 ?? ?? L’argentino e l’italiano vinsero da grandi protagonis­ti i Mondiali del 1978 e del 1982
L’argentino e l’italiano vinsero da grandi protagonis­ti i Mondiali del 1978 e del 1982

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