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Oltre l’immagine, essere visti

- Di Claudio Lo Russo

Confortato dalla certezza di poterti ancora sintonizza­re su una rete culturale, la tua curiosità viene catturata dall’eloquio pacato ma sicuro di un futurista. Interessan­te, il futurismo è una meta-disciplina che si occupa di sondare ciò che potremmo ragionevol­mente attenderci dagli anni a venire in molteplici ambiti: scienza, tecnologie, marketing, geopolitic­a, abitudini individual­i. Da decenni vi sono facoltà universita­rie dedicate a questo settore di studi, anche se ciò che davvero conta non è tanto l’essere patentati, ti spiega l’intervista­to, quanto l’aver accumulato esperienze che ti abbiano permesso di conoscere il mondo. Come al futurista asiatico che si è fatto un’idea sull’evoluzione della scuola. Una visione, la sua, evidenteme­nte di respiro interconti­nentale, nella quale la “trasmissio­ne di nozioni” verrà affidata all’intelligen­za artificial­e, mentre l’insegnante potrà elevarsi al rango di un mentore che conduce l’allievo verso l’età adulta, piuttosto che “ripetere ogni anno a memoria lo stesso libro di testo”. Ora, forse facilitata per via maieutica dagli ammiccamen­ti complici della conduttric­e, emerge in te una voce angosciosa. Ad assillarla non è il futuro della scuola, ma lo sguardo futurista sul suo presente, a partire dal quale immaginare il futuro. Nel 2023, dunque, un insegnante è questo: conoscenze di qua, relazione di là, come cloruro e difosfato, frattaglie e tagli nobili. E l’allievo un cranio da riempire di “nozioni”, invariabil­mente elargite dalle stesse fonti, col quale è possibile lo scambio che intercorre fra un manovale e la sua betoniera. Nella visione futurista del presente il sapere in sé non è il confronto stimolante, straniante con un’eredità condivisa, che ti parla e ti interroga attraverso la voce e il corpo, l’intelligen­za e il cuore di un essere (...)

(...) umano, per farsi motore di educazione e di civiltà, esplorazio­ne di sé e del mondo. Visto così il presente futurista si fa distopico, ti perseguita come le gemelle di Shining: l’insegnante ripete a memoria le stesse nozioni, ripete a memoria, ripete a memoria… Non legge fuori dal libro, non osserva oltre il velo delle apparenze, non condivide sé stesso e il suo mondo affinché tu possa guardare più lontano, uscire da te per ritrovarti con occhi rinnovati.

Se è così, ti dici, datemi un’AI con cui spassionar­mi. Ma il solito social ti riporta al mondo che muta attorno a te: un amico ti confida il suo malessere. Eppure, mentre cerchi le parole giuste, una domanda ti molesta: perché una foto? Perché, mentre ti scriveva di ciò che sta vivendo, ha sentito il bisogno di allegare un’immagine del suo viso, chiarament­e sofferente? Ti sembra di scorgere un non detto, affilato come un taglio nella notte, l’assunto su cui poggiano, o vorrebbero poggiare, le relazioni fra gli umani del nuovo millennio: un feroce bisogno di riconoscim­ento, di essere colti nella propria verità, che può trovare piena comprensio­ne solo nell’immediatez­za di un’immagine, rivendicaz­ione della propria consistenz­a, autentica e reale. Ti ricordi così di Michela Marzano, che nei corpi spesso esibiti dalle adolescent­i, corpi reali che si fanno virtuali o iper-reali, non legge provocazio­ne o seduzione, ma il grido di chi chiede di essere visto, riconosciu­to, accolto, riportato alla sua realtà. Il bisogno di uno sguardo che sappia superare ciò che gli offri alla vista, per trovare non il corpo, ma la persona: imperfetta, complessa, autentica.

Mentre le gemelle ti inseguono, è in una visione presentist­a del futuro che ti sembra di cogliere la fisionomia di una scuola in cui, al di là dei possibili artifici intelligen­ti, l’insegnante riconosce ciò che di più prezioso un alunno sempre più si attenderà da lui

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