Il coraggio e l’esempio di Ricky, Gigi e gli altri
«Il 30 luglio è stata la serata più difficile della mia vita, la mia mente è sprofondata nell’oscurità, sapevo che stavo andando in quella direzione, ma non avrei mai pensato di perdere il controllo della situazione. E così, il giorno dopo, ho deciso di porre fine alla mia carriera professionale, perché ciò che contava più di tutto era lavorare sulla mia salute mentale, cosa che sto ancora facendo».
Sono le parole con cui lo spagnolo Ricky Rubio, 33enne stella della Nba, il maggior campionato cestistico a livello planetario, confessava la scorsa settimana sui social di soffrire di depressione. «Un giorno, quando verrà il momento adatto», ha poi aggiunto, «mi piacerebbe condividere la mia esperienza per poter essere d’aiuto ad altri». Si tratta di un atto di coraggio, un’ammissione di vulnerabilità che soltanto una decina d’anni fa sarebbe stata inimmaginabile, perché agli eroi non era concesso di mostrare il loro lato debole: sarebbe stato come confessare di avere imbrogliato tutti quanti per molti anni. Ora, per fortuna, i tempi sono cambiati, e alcuni nomi grossi dello sport hanno trovato la forza di uscire allo scoperto e di rivelare che gli atleti d’élite possono soffrire esattamente come i comuni mortali.
Anzi, ancor di più, almeno stando alle più recenti pubblicazioni di settore, come quella firmata da un’équipe di ricercatori canadesi dell’Università dell’Alberta, secondo i quali – appunto – gli sportivi d’alto livello sono più predisposti alla depressione rispetto al resto della popolazione. Colpa, verosimilmente, della pressione costante a cui sono sottoposti, dell’ansia da prestazione, dello stress dato dalla morbosa attenzione mediatica e delle critiche ricevute per ogni errore commesso.
Per fortuna, sono sempre più frequenti i casi di famosi campioni che, superando paure e ritrosie, mettono a nudo la propria sofferenza. Gli esperti riconoscono che ciò è dovuto a un cambiamento generale di mentalità e di atteggiamento nei confronti di un certo tipo di disagio. Il problema, tanto per intenderci, è sempre esistito, solo che faticava a emergere. Tutt’al più, ammettono Kerry Mummery e i suoi collaboratori, è ormai assodato che oggi i casi siano più frequenti di un tempo perché, insieme ai soldi e alla gloria, sono aumentate pure le aspettative che su questi atleti gravano.
Alla confessione di Rubio hanno fatto seguito sui social, purtroppo, innumerevoli commenti fra il feroce e il demente. Con tutti i soldi che guadagna – hanno digitato gli stolti – è inaccettabile che faccia queste scene. Che vada un mese a faticare in fabbrica – hanno urlato altri – e poi scommetto che la depressione gli passa di sicuro. Come se denaro e privilegi fossero la panacea contro tutti i mali del corpo e della mente. Non si accorgono, i cosiddetti leoni da tastiera, di negare ciò che intendono sostenere nel momento stesso in cui formulano il loro basico pensiero.
Bastassero i quattrini, Ricky Rubio non si buscherebbe mai nemmeno mezzo raffreddore: professionista del basket da quando aveva 14 anni (quattordici, avete capito bene), di milioni ne ha guadagnati a decine, se non a centinaia. Ma ciò non gli ha consentito di immunizzarsi contro alcuna patologia. E, del resto, poveri in canna non lo sono nemmeno personaggi del calibro di Agassi, Dumoulin, Osaka, Kevin Love, Gigi Buffon, Iniesta, Ronaldo il fenomeno, Ilicic, Mertesacker e (notizia giunta proprio ieri) Titi Henry, tutti ritrovatisi a fare i conti, a un certo punto della propria vita, con un avversario assai più temibile dei rivali che dovevano affrontare in campo. E spiantato non lo era nemmeno il compianto Robert Enke, che alla prospettiva di palesarsi debole agli occhi del mondo preferì gettarsi sotto un treno.
Il problema è che – non si sa per quale motivo – quasi tutti facciamo una tremenda fatica a convivere con l’idea che il cervello sia un organo biologico come tutti gli altri, e come tale vulnerabile alle malattie, preferendo considerarlo invece, erroneamente, una sorta di stanza dello spirito che giace sotto il completo controllo dell’individuo.