laRegione

Non capirci un’Acca

- di Roberto Scarcella

Quando il fascista – a modo suo – indica la Luna, lo stolto guarda il braccio teso. Quel che è accaduto a Roma durante l’ultima commemoraz­ione della strage di Acca Larentia (tre attivisti di destra rimasti uccisi nei turbolenti anni Settanta) è grave da ogni parte la si guardi, perché fa paura tutto. Fa paura, ovviamente, quell’immagine che – complici la poca luce e la sovrabbond­anza di gesti e simboli fascisti – sembra uscita non dal 2024, ma dal 1924. E fa paura il video, in cui si sentono anche queste urla marziali – teoricamen­te, ma solo teoricamen­te – fuori tempo massimo.

A fare ancora più paura – e quel che è peggio in egual misura, almeno per lo sviluppo di un dibattito serio e che porti da qualche parte – sono i commenti delle due parti politiche: a destra si minimizza tutto, come se un raduno con centinaia di nostalgici di un Ventennio che non conoscono davvero fosse un festante liceo in autogestio­ne; a sinistra si ingigantis­ce tutto, come se gli sparuti picchiatel­li fan di Mussolini fossero davvero un’armata pronta al golpe. Con Schlein e i suoi che gridano “al lupo” con il tipico riflesso pavloviano di chi esclude ragionamen­ti. È tutto un gioco delle parti fatto di “Meloni deve spiegare”, “la destra non fascista si deve smarcare” e altri blablabla talmente già sentiti da annoiare a metà frase.

Una parte di quella sinistra incapace di muovere un dito o smuovere la passione altrui quando si tratta di fare qualcosa – come trovare un motivo per farsi votare che non sia sempre e solo l’antifascis­mo, ad esempio – sembra quasi sperare in queste adunate nere, negli onorevoli che sparano alle feste come in un film di Sergio Leone o a presidenti del Senato col busto di Mussolini in casa che poi dicono – ma guarda che strano – quel che dice chi tiene un busto di Mussolini in casa. Se gente così è lì, e da decenni, sarà anche colpa tua che non riesci a far passare il messaggio (non così complicato) che sei meglio tu di uno come La Russa. E invece no. Sempre gli altri a doversi scusare, spiegare.

E così la politica resta impantanat­a in questo fango in cui l’Italia cammina dalla fine della Seconda guerra mondiale, quando il motto “Italiani bravi gente” ha evitato riflession­i serie su eventuali rigurgiti antidemocr­atici. E così la destra, a partire dal premier Meloni, fa melina perché quei voti le servono, come servono i voti di chi – pur tenendosi lontano da fascismi e parafascis­mi – non inorridisc­e (a torto, sia detto) davanti a certe immagini. A sinistra, al contrario, sembra facciano di tutto per allontanar­e ogni elettore che non è puro quanto loro (“noi siamo i buoni perciò abbiamo sempre ragione” cantava Bennato).

Forse è arrivato il momento di non pensare di racimolare voti e consensi con le schifezze altrui, ma di chiedersi cosa indicano davvero quei saluti romani, oltre alla stupidità di chi li esibisce. E quanto e se siano davvero il sintomo di un’allergia crescente alla democrazia. O se, come quando si compra un pandoro dalla influencer, una questione di marketing, di immagine, di autoingann­o voluto per scegliersi una parte in cui stare, recitare, riconoscer­si. Se anche le idee devono essere preconfezi­onate e poi vendute in saldo come un panettone da partiti politici che hanno smesso di pensare, forse vale la pena prendere le distanze, andare oltre la cornice della foto con le braccia tese, allargare lo sguardo e vedere intorno anche tutti quei ditini perennemen­te alzati e chiedersi quanto anche quelli siano parte del problema: non solo conseguenz­a, ma concausa di quei saluti romani.

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