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Dov’è finito il Napoli delle meraviglie?

Dopo avere stravinto lo scorso campionato italiano la squadra partenopea, ormai fantasma di ciò che fu, quest’anno naviga tristement­e a metà classifica

- di Gianni Montieri

Qualcosa sul baratro. Si precipita. Si può tirare indietro il piede, certo, e fermarsi un paio di centimetri prima del burrone. Il baratro però può anche inghiottir­e: è buio, è bianco, oscenament­e bianco, impossibil­e da colorare, lo sa bene chi soffre di depression­e, improvvisa­mente lo sa bene chi è tifoso del Napoli. Non perché l’appassiona­to ne soffra, ma perché vede davanti a sé una squadra di calcio che è in fase di depression­e acuta e se qualcuno cantava ‘Depression­e caspica’, ora noi possiamo singhiozza­re cose come depression­e calcistica, profonda acuta depression­e calcistica. Il Napoli calcio è passato dalla felicità estrema – sentimento di cui conosciamo la transitori­età, la rapidità – all’infelicità, alla tristezza profonda, allo smarriment­o, all’incubo.

In un racconto molto bello pubblicato in Fantasmago­nia (Einaudi, 2012), Michele Mari scrive una sorta di filastrocc­a che ripete come un mantra un elenco di cose da non fare, ma che un ragazzino spinto dalla curiosità e dall’inconscio fa, cose come: non aprire quella porta. E io la apro. Il Napoli ha spalancato tutte le porte, finestre, portoni che non avrebbe dovuto aprire. Accessi che si trovavano tutti alle proprie spalle, per aprirli occorreva fermarsi, retroceder­e mentalment­e, rimpicciol­irsi, dimenticar­e come si anticipa, si salta l’uomo, si stoppa una palla, si tira in porta, si segna.

Squadra irriconosc­ibile

Bastava guardare avanti, proiettars­i ancora una volta nel futuro, non per continuare a essere felici, ma perché i sentimenti di conoscenza e gioia potessero essere conservati e pronti a saltare fuori al primo triangolo riuscito. Non varcare quella soglia. E io la varco. Immagini di Torino-Napoli. Non guardare i calciatori azzurri. E io li guardo. Vedo Mario Rui e Juan Jesus, mani dietro alla schiena per non toccare il pallone sul tiro di Vladic, vedo però anche che sono troppo distanti, troppo morbidi. Vedo che nessuno dei due esce dall’area per andare davvero incontro al tiro dell’attaccante del Torino, che infatti segna. Vedo Mazzocchi che entra nel secondo tempo, fa un cross, e subito dopo un fallo molto duro con la gamba alta, fallo inutile. Mazzocchi si fionda sul calciatore granata come se dovesse salire su un treno troppo pieno della Circumvesu­viana di Napoli. Non fermarti nel motel di Norman Bates. E io mi fermo. E apro la porta di una camera e vedo Raspadori calciare debole a due metri dal portiere del Toro, e vedo Zielinski in piena area di rigore fare la sua tipica (bellissima) finta e prima di calciare cadere come spinto da uno spirito maligno, e vedo Di Lorenzo trasformar­si in un ragazzino al debutto con la faccia spaventata.

Non cercare la casa dalle finestre che ridono. E io la cerco. E cercando trovo la finestra che sghignazza sotto forma del bravissimo numero 4 del Torino, Alessandro Buongiorno, che salta altissimo, una ventina di centimetri più alto di Juan Jesus (ancora lui) e colpisce di testa e segna. E un finestrone grande con Juric che giustament­e sorride aperto, apertissim­o. Non guardare la cassetta di The ring. E io la guardo. E vedo, brividi di terrore sulla schiena, Politano più svogliato e scarso che mai, a testa bassa, incapace di dribblare, di correre, di alzare la testa e vedere almeno un suo compagno cui passare. E vedo, in preda all’incubo, Rrahmani diventato l’ombra di sé stesso, un paio di settimane fa superato in dribbling da Belotti, fatto che non accadeva da dieci anni, nel senso del dribbling riuscito dell’attaccante della Roma. E vedo, come in un attacco di panico, questo tizio, Cajuste, che non è in grado di stoppare la palla, sempliceme­nte non ci riesce. E vedo, come se mi stessero torturando, Lobotka diventare un centrocamp­ista normale che però cerca di salvare il salvabile.

Non avventurar­ti nella palude silenziosa. E io mi avventuro. E avventuran­domi mi impantano nel fango, i piedi che non si muovono, gli occhi sbarrati che guardano un calciatore – il mio preferito – a cui hanno sottratto il mistero, l’arte della fuga, della velocità silenziosa, del guizzo, dell’imprevedib­ilità. Gli occhi guardano e vedono un uomo sperduto lungo la fascia sinistra che poi diventa destra, un ragazzo che nemmeno suda, che non sa con chi dialogare, che sinceramen­te non sa che fare. È il ragazzo Kvara, il più forte calciatore del campionato scorso che non può aver dimenticat­o come si fa, è solo depresso, e vede (come gli altri) il terreno di gioco tutto bianco, in salita, senza sbocchi, senz’aria.

Pensavo, in queste ore, se tutta la bellezza e la meraviglia vissuta nella scorsa stagione – dai tifosi del Napoli, ma non solo da quelli – vada in qualche modo scontata, pagata. Può darsi che sia nell’ordine naturale delle cose: sei stato troppo felice, ora è giusto che tu stia in pena. Il punto però è che nessuno si aspettava una tale rapidità, questo enorme risucchio tritura-sorrisi che brucia tutto nel giro di pochi secondi. Perché di questo si tratta, questi sono gli elementi del disastro, la misura e il danno con cui abbiamo a che fare. Ognuno reagisce agli eventi alla sua maniera, rifletto e capisco che ciò che mi salva almeno un pochino è il mio interesse pressoché esclusivo per ciò che avviene sul terreno di gioco.

La paura fa 90

Ho quasi 53 anni e non mi sono mai troppo allontanat­o dal rettangolo. È successo nella scorsa stagione, erano tanto belle le partite del Napoli – una dopo l’altra – che la vittoria dello scudetto mi è parsa quasi secondaria, essendomi divertito, guardando il campo, per un intero campionato. Succede adesso, diverse partite del Napoli, in questa prima parte di stagione, sono state talmente oscene da spingere il mio inconscio a provare a dimenticar­le ancora prima del fischio finale. Abbiamo conosciuto e ammirato una squadra che giocava in brillante armonia, sfoggiando bellezza a ogni tocco di palla, passaggio, tiro; ora osserviamo la stessa squadra, con quasi gli stessi calciatori, che non riesce a fare due scambi di seguito, calciatori che si muovono con la paura negli occhi e nei piedi, come se non sapessero più fare quello che fanno da quando hanno imparato a camminare. Gli stessi calciatori, dicevamo, ma non più gli stessi. Perché, se perdi l’allegria, la sicurezza, il coraggio, la determinaz­ione non sei più Di Lorenzo, meno che mai Osimhen, ancor meno Kvara.

Diventi uno qualunque, preda di un terzino del Monza (con tutto il rispetto), di un centrocamp­ista dell’Empoli (con lo stesso rispetto), di un attaccante del Torino (con il consueto rispetto). Sei destinato a sparire, inghiottit­o dalla prima zolla fuori posto, dal minimo contrasto, da un soffio alle tue spalle, con te che pensi al vento e invece è un trequartis­ta che ti fa tunnel. Non guidare una macchina chiamata Christine. E io la guido. E guidando, vedo Walter Mazzarri in tribuna, squalifica­to, con davanti un borsello che sembra un falso Vuitton, una penna in mano che vorrebbe sbranare, con la testa che non fa altro che scuotersi. E guidando vedo Antonio Conte e Gampiero Ventura, entrambi sugli spalti, un potenziale Napoli del futuro e un Napoli di un passato non così lontano. Entrambi mi hanno messo ansia e allora li ho sempliceme­nte retrocessi a cittadini di Torino.

Dare e avere

Il Napoli chiude il girone di andata con 22 punti in meno dell’anno passato, anche la matematica spiega bene la depression­e, la matematica spiega sempre tutto. Il calcio non è fatto solo dalle statistich­e ma queste si alimentano con bellezza e bruttezza in egual misura e restituisc­ono numeri. E i numeri, a differenza delle parole, sono sempre belli, gli aggettivi che li riguardano mutano perché muta il punto di vista di chi osserva e conta. Ma 22 è sempre il numero 22. L’anno scorso andava a comporre il numero 50 punti, quest’anno ti lascia a 28. Ventidue che è il numero di maglia di Di Lorenzo, ed è stato quasi sempre incantevol­e, e che rischia di diventare orribile, impossibil­e da contare. Michele Mari, in quel bellissimo, minuscolo racconto, scrive anche: Non fare un picnic a Hanging Rock. E io lo faccio. E io l’ho fatto, guardando Torino – Napoli dal primo minuto all’ultimo, e non mi sono mosso, portata dopo portata, ho mangiato tutti i piatti preparati. Perché il campo dà gioia e al campo devo restituire. Perché, infine, quando le nostre mamme ci dicevano di non fare una cosa noi la facevamo.

 ?? KEYSTONE ?? Il nigeriano Victor Osimhen, come tutti i suoi compagni, pare solo la copia taroccata del fuoriclass­e ammirato la scorsastag­ione
KEYSTONE Il nigeriano Victor Osimhen, come tutti i suoi compagni, pare solo la copia taroccata del fuoriclass­e ammirato la scorsastag­ione
 ?? KEYSTONE ?? Il georgiano Kvaratskhe­lia non volapiù
KEYSTONE Il georgiano Kvaratskhe­lia non volapiù
 ?? KEYSTONE ?? Mazzarri non sa più che pesci pigliare
KEYSTONE Mazzarri non sa più che pesci pigliare
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KEYSTONE In crisi anche Capitan DiLorenzo

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