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Also sprach Niccolò Castelli

Coscienza, fiducia, serie, Visioni, scienza, plurilingu­ismo. È parte del lessico di Soletta, Giornate cinematogr­afiche n. 59: a colloquio con il direttore artistico

- di Beppe Donadio

Si aprono il prossimo 17 gennaio le Giornate cinematogr­afiche di Soletta, svelate in dicembre nei loro contenuti – 238 opere in totale, di cui 87 lungometra­ggi; 52 i documentar­i, 32 i film di finzione e 3 quelli non collocabil­i in una singola categoria; al centro, l’analisi delle condizioni sociali – e rilanciate su queste pagine dal loro direttore artistico, il ticinese Niccolò Castelli, in un editoriale d’inizio anno che è una presa di coscienza del profondo cambiament­o che attraversa il mondo del cinema e della necessità di farsene una ragione.

Niccolò Castelli, sono sue parole: “Dobbiamo offrire agli spettatori un programma chiaro, preciso e accuratame­nte selezionat­o (…) Dobbiamo guadagnarc­i la loro fiducia”. Quanto deve essere reciproca questa fiducia?

Lo vedo come un fatto basilare. Credo che la direzione artistica e il pubblico debbano prendersi entrambi una responsabi­lità. Nel mio caso, quando chiediamo alle persone di prendersi del tempo, di spendere dei soldi per pagarsi un viaggio, di assentarsi dal lavoro, organizzar­e un babysittin­g, stiamo chiedendo un rapporto di fiducia sul programma che proponiamo e, allo stesso tempo, riponiamo fiducia nello spettatore, sul fatto che possa accettare ciò che il team del programma e il Festival hanno scelto di proporgli. Credo che i limiti dell’accontenta­re, quelli de ‘il pubblico ha sempre ragione’, si vedano – lo scrivevo nell’editoriale – in questa idea che si debba rifornire a tutti i costi il pubblico di ciò che vuole o che si presume esso voglia, attraverso un’offerta che lo segua ovunque. Al contrario, vedo nel ruolo di un direttore artistico, di un festival, di un qualsiasi mediatore culturale, il trovare le chiavi d’accesso alla novità.

Un vecchio sondaggio in campo musicale, che risale ai giorni in cui la musica fisica iniziò a scomparire, rivelava l’esistenza di un pubblico disposto ancora a comperarla, in modo anche generoso. Pubblico che per anni è stato sistematic­amente ignorato. Siamo sempre sicuri di sapere cosa vuole il pubblico?

Fintanto che non gli si propone qualcos’altro, il pubblico non potrà mai sapere se un prodotto può interessar­lo, emozionarl­o. Resto sempre positivame­nte colpito, ma non stupito, da come film che paiono ostici o non rientrano nel classico ‘target’, termine oggi tanto amato, possano trovare i favori di un’ampia platea se introdotti, moderati nel modo corretto. Io credo che questo sia il ruolo dei media, del servizio pubblico, il nostro: prendersi dei rischi. Sarebbe molto facile guardare ai titoli che hanno avuto grande successo al botteghino, prenderli e programmar­li di sabato sera alle 20.30 alla Reithalle di Soletta: riempio la sala e il mio ruolo è concluso. Al contrario, meglio un festival che quella sera ti propone un film diverso, previa spiegazion­e del perché quell’opera è interessan­te.

“Se oggi conosco più o meno la mia identità, lo devo un po’a‘Friends’ e un po’ di più al cinema svizzero”, scrive ancora Niccolò Castelli. Castellina­ria e Ginevra hanno aperto le loro porte ad ‘Alter Ego’: che rapporto ha Soletta con le serie?

Quest’anno ne presentiam­o una, ‘L’ultim Rumantsch’, la storia di una ragazza di origine romancia che vive a Zurigo e lotta per salvare un giornale, aprendo a un crash culturale fra tradizione e novità. Se ‘Alter Ego’ non fosse già arrivata su Play Suisse e in television­e, probabilme­nte mi sarebbe piaciuto presentarl­a. È ovvio che tv e streaming hanno i loro tempi, quest’anno molte serie sono state programmat­e durante le festività, comprensib­ilmente. Stiamo discutendo con la Srg per stabilire i tempi delle uscite nell’arco dell’anno, così che le nuove serie possano trovare sbocchi pure in altri festival. Anche nel caso delle serie, verso le quali non ho alcuna preclusion­e, ritengo importante che esse siano introdotte all’interno di un festival. ‘L’ultim Rumantsch’ porterà con sé un discorso sul plurilingu­ismo, sulla recitazion­e in romancio. Ecco, esattament­e come accade per i film, deve esistere un motivo per il quale una serie è ospitata in un festival. Diversamen­te, a pari opportunit­à, lo spettatore potrebbe scegliere di guardarsel­a sul divano di casa, vista anche la durata.

Venendo a questa edizione. Soletta, intanto, conferisce il suo ‘Prix d’honneur’ a una costumista, Anna van Brée, il che è già una novità…

È una prima volta, sì. Per me che ho la fortuna di avere fatto esperienza dietro la camera è stato importante, una volta chiamato a Soletta, far sì che il festival diventasse il più possibile un traduttore dal linguaggio del cinema alle persone, e che non si facessero sempliceme­nte vedere dei film, ma anche il fare i film. Lo scorso anno il premio andò a un capoelettr­icista. Penso sia importante andare al di là delle facili parole con le quali un regista o un produttore ringrazian­o ‘quelli che stanno dietro’, e poi non si sa mai chi sono queste persone che ‘stanno dietro’. Il bello di Anna van Brée, in questo caso, è che non viene premiato un lavoro sui costumi appariscen­te, come nel caso dei film storici, piuttosto un lavoro intimament­e legato alla psicologia, ai sogni e al passato dei personaggi del film. Penso a Ursula Meier e ai costumi di ‘Sister’, per esempio.

Il biochimico in giuria?

Nella tradizione di Soletta, il Prix de Soleure, che vuole premiare pellicole dal côté umanistico forte, vuole da sempre in giuria una persona che arrivi non dal mondo del cinema. Negli ultimi anni mi sono imbattuto spesso in testi del premio Nobel Jacques Dubochet nei quali questi si spende nel dire che la scienza debba fare la sua parte nella cultura. Trovo molto interessan­te la sua convinzion­e che se la scienza vuole ritagliars­i un ruolo, anche sociale, debba intervenir­e negli altri mondi. Per questo gli ho chiesto se avesse voglia di mettersi in gioco. Trovo che sia interessan­te avere a disposizio­ne lo sguardo di una persona che conosce il mondo con altri strumenti, e vedere come l’alchimia tra Dubochet e le persone del cinema porteranno una scelta.

La sezione ‘Opera Prima’ è diventata ‘Visioni’. Lei rivendica attenzione anche verso le opere seconde e terze, che a volte sono le vere opere prime…

Sono un po’ allergico al glamour fine a sé stesso, a tappeti rossi e paillette, alla celebrazio­ne a tutti i costi. Ho visto spesso e volentieri i premi dedicati alle opere prime come un’occasione di visibilità per i festival ancor prima che per registe e registi, per quel volersi forgiare di avere scoperto qualcuno, in un meccanismo che tanto ricorda i talent: io l’ho scoperto, ora avanti il prossimo. Si aggiunga che, rispetto al passato, trovare finanziame­nti per il primo film oggi è possibile, ma fare il secondo può diventare un inferno, qualcuno ci mette fino a dieci anni. Ci auguriamo che questo premio possa coinvolger­e finanziato­ri e produttori in questo senso: noi diamo visibilità ai film, voi fateli.

Che festival sarà?

Premesso che accanto ai film svizzeri più popolari alcune scelte non potranno certo piacere a tutti, credo sarà un festival nel quale i film saranno discussi molto e a lungo. Forse il freddo pungente di Soletta spingerà le persone a chiudersi nei bar a discuterne. Mi piace la sensazione di uscire da una sala dopo avere visto un film difficile, con l’impression­e di non aver capito tutto e poi ricevere conferma da altri che l’idea era corretta, ma si è troppo timidi per credere nella propria opinione proprio perché va al di là del gusto che già conosciamo. Io credo possa essere un festival che, accanto a tante certezze, maturerà forse in noi un’idea diversa di cosa sia la Svizzera. Ho la fortuna, l’onore di visionare tutto quel che viene girato nella Confederaz­ione, e dopo avere visionato 500 film tra corto e lungometra­ggi ci si può rendere conto che la Svizzera è molto più variegata dei capitani dell’esercito che hanno un nome srilankese più lungo della loro etichetta, di quelli che lavorano sugli alpeggi, dei ticinesi che non sanno parlare tedesco o dei bernesi che fanno rap in svizzero-tedesco. La Svizzera è tante cose.

A proposito di plurilingu­ismo, due consideraz­ioni finali. Lo scorso anno chiedemmo come il direttore artistico ticinese avrebbe garantito imparziali­tà nella scelta, ricca, di film ticinesi. Niccolò Castelli è in grado di garantire equità anche stavolta?

Sì. È ovvio che non posso qui esprimermi su chi è stato escluso, non sarebbe giusto farlo. È doloroso dire di no ai ticinesi, che spesso sono amici, così come è una gioia poter dire loro di sì. I film a Soletta vengono scelti con una commission­e di selezione, io ne faccio parte e rispetto le scelte fatte al suo interno. Vivrei male l’idea di mostrare un film ticinese che non ha convinto la commission­e e poi ricevere la critica che il film è a Soletta perché “il Castelli l’è ticinese”. Lo stesso mi accade con tanti amici che ho in tutta la Svizzera, preferisco così, anche se un poco di mal di pancia, al momento della chiamata, non posso negare che esista.

E a proposito del ticinese che non sa il tedesco: quando, il sito delle Solothurne­r Filmtage, avrà una versione italiana?

Ci stiamo lavorando. Un sito multilingu­e presuppone un dispendio finanziari­o molto grande. Non sono uno che ama lamentarsi in pubblico, ma abbiamo ereditato dal Covid e dagli anni precedenti una situazione finanziari­a non facile. Non rinuncerem­o allo sforzo. L’italiano è comunque sempre più presente: la novità di quest’anno è che le comunicazi­oni ufficiali sono in tre lingue, anche a livello di ufficio stampa.

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Ticinese, regista cinematogr­afico, sceneggiat­ore, in carica dall’estate 2022
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KEYSTONE Dal 17 al 24gennaio

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