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Taiwan, i vantaggi dell’ambiguità

- di Aldo Sofia

Per decenni, in Occidente, fu l’‘isola che non c’è’. Taiwan, che chiamavamo Formosa, sulle carte geografich­e sembrava una macchiolin­a di scarso interesse per il pubblico, tutt’al più consapevol­e che si trattava del ridotto su cui si era rifugiato con le superstiti e sconfitte truppe nazionalis­te il generale Chiang Kai-Shek, sopraffatt­o in Cina dall’esercito di liberazion­e di Mao; prima o poi comunque destinata, quell’‘isola sospesa’, a essere conquistat­a e annessa alla grande madrepatri­a, che dal 1949 era governata dalla nuova potenza comunista mondiale. Dopo tre quarti di secolo, Taiwan è invece trasformat­a in “punto potenzialm­ente più pericoloso del pianeta”. Minacciosa intersecaz­ione fra i due colossi mondiali, Cina e Stati Uniti. Con l’America che ne ha fatto la sentinella più avanzata del suo sistema di alleanze nell’Indo-Pacifico; e con l’‘Impero di Mezzo’ che ne rivendica l’appartenen­za per suggellare il suo status di potenza globale, più che mai dopo l’arrivo di Xi Jinping al potere.

Così, mentre sullo scacchiere internazio­nale sono già in atto due conflitti che minacciano di esondare (Ucraina e Medio Oriente), la consultazi­one elettorale di sabato nell’isola ha cristalliz­zato un interesse senza precedenti. Con esito chiaro. Per l’Occidente, certo che la vittoria nella corsa presidenzi­ale di William Lai, del Dpp, d’orientamen­to liberal-progressis­ta, partito che si impone per la terza volta consecutiv­a, è uno schiaffo a Pechino nonché l’ulteriore consacrazi­one di un’indipenden­za e di una democrazia a cui Taiwan non intende rinunciare; per altri, invece, il fatto che il neo capo dello Stato non abbia la maggioranz­a in parlamento, grazie alla relativa tenuta del Kuo Min-Tang (erede dei nazionalis­ti di Chiang Kai-Shek) relativizz­a l’irritazion­e di Pechino. Dunque, i progressis­ti vittoriosi e del tutto ermetici nei confronti di Pechino, i nazionalis­ti sconfitti più favorevoli al dialogo con la madre-patria. È la rappresent­azione che ne ha dato la stampa internazio­nale. Davvero assai sommaria. La realtà è che nessuna delle formazioni politiche di Taiwan accetta l’annessione alla Cina. Nemmeno il Kuo Min-Tang, democratiz­zatosi dal 1996, anche a costo di perdere il potere. Eludere questa verità ha forse vivacizzat­o il voto, ma distorto il suo significat­o. Rimangono i rischi. E i paradossi.

In primis, il doppio gioco americano. Gli Stati Uniti riconoscon­o Taiwan come Stato indipenden­te. Sostengono che il problema va risolto attraverso la formula ‘Una sola Cina, e due sistemi’: un’altra Hong Kong, per intenderci, con rischi annessi. A risultati noti, la Casa Bianca ha ribadito il non riconoscim­ento. È la “politica dell’ambiguità”, così la definiscon­o senza ritegno anche a Washington. Frutto della passata convinzion­e che il galoppante sviluppo economico cinese (grazie alla globalizza­zione) avrebbe innescato la liberalizz­azione del regime e favorito la soluzione pacifica anche dell’anomalia Taiwan. Pura illusione. In novembre a San Francisco, Biden e Xi hanno riallaccia­to il dialogo. Ma la Cina rimane il principale competitor­e ‘sistemico’ degli Usa. Mentre Taiwan continuerà ad affidarsi a un’ambiguità politica in cui, finché dura, l’Ovest ha tutto da guadagnare: sia tenendosi la “sentinella avanzata Taiwan”, sia perché ‘l’isola che non c’era’ è ormai un pivot economico, che vende al mondo il 90% dei semicondut­tori più avanzati. Indispensa­bili all’economia tecno-globalizza­ta. Cina compresa.

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