Se le discussioni si esacerbano
Dal principio di autonomia che va tutelato nel fine vita alla necessità di una condivisione di informazioni con paziente e familiari coinvolti
Tanja Fusi-Schmidhauser è primario della Clinica di cure palliative e di supporto Eoc dal 1° luglio 2023. Il suo è un osservatorio privilegiato per quanto riguarda il fine vita, anche se non sotto l’aspetto pediatrico. Con lei partiamo dal concetto di senso delle terapie, che non può non mettere in luce fin dall’inizio l’autonomia decisionale del paziente: «Se penso all’adulto con una capacità di discernimento sulla modalità di cura e sulla sua presa a carico, al malato con una patologia cronica, evolutiva, che ha una prognosi comunque limitata, la domanda su cosa sia appropriato fare, in ogni caso, emerge. Pensiamo alla futilità o meno di certi trattamenti e alla decisione fatta con grande consapevolezza da alcuni pazienti di non intraprendere un percorso di trattamento che non porterà a un prolungamento della vita, ma piuttosto a un rischio di maggiore sofferenza, mache decidono invece consapevolmente di procedere a un controllo dei sintomi, a migliorare quella che è per loro la qualità di vita. C’è, dunque, un principio di autonomia che va rispettato. Nel contempo, va anche in qualche modo spiegato al paziente, e alla famiglia se coinvolta, cosa vuol dire portare avanti dei trattamenti, quali sono i rischi, le criticità e i benefici, soprattutto quale impatto possono avere sul proseguo della vita e sulla malattia. Occorre essere molto chiari, trasparenti e onesti, in modo che il paziente possa prendere delle decisioni in piena consapevolezza e con tutte le informazioni a disposizione. Discutere di questi aspetti lungo la traiettoria di malattia con il paziente e con i familiari è essenziale».
Ospedale specchio della società
Rapporti che si fanno più conflittuali con gli anni? «Come entità ospedaliera siamo uno specchio della società. E quindi quello che succede fuori automaticamente viene traslato all’interno delle strutture sanitarie. Certamente quella di oggi è una società più complessa, anche per lo scossone dato dalla pandemia. Così quando una persona è malata le conflittualità, magari già presenti all’interno di una famiglia, si esacerbano nelle discussioni sul percorso di cura fatte con i curanti. Tutta una serie di tematiche che riguardano le opzioni di trattamento, l’evoluzione e la prognosi della malattia non sempre vengono affrontate con la necessaria anticipazione e questo può chiaramente favorire una maggiore conflittualità poiché le aspettative tra paziente, famigliari e professionisti della salute si discostano notevolmente».
Il web e doctor Google
Internet poi non aiuta, è così? «Internet è un valido supporto per il paziente e i suoi familiari, se utilizzato con consapevolezza. Una maggiore informazione del paziente sul proprio stato di salute ha contribuito al passaggio da un modello puramente paternalistico di cura, dove il medico decide per la salute del proprio paziente, a un modello di decisione condivisa, ‘shared’ come definito dalla letteratura internazionale. L’evoluzione dal mio punto di vista è perciò assolutamente positiva. Nostro compito è, dunque, quello di spiegare quali sono le scelte, di permettere al paziente una decisione informata: questo è ‘il tema’, quello dell’essere informati adeguatamente per prendere una decisione appropriata. L’adeguatezza delle informazioni spesso e volentieri non è data perché la fonte di informazione (il web per esempio) non sempre aiuta nella comprensione del dove il paziente sta nel percorso di malattia, quali sono le possibili opzioni, quali sono gli aspetti di cura che possono aver senso per quel paziente. Il nostro compito è quindi cambiato, non siamo più coloro che prendono le decisioni per il paziente, ma le decisioni vengono prese in “squadra” con il paziente e la sua famiglia. E questa è una sfida che richiede sicuramente più tempo, ma è tempo sicuramente ben investito. Il ruolo, importante, dei curanti è quello di riuscire a stabilire un legame terapeutico così stretto dove il paziente si senta rispettato nel percorso di cura condiviso, in termini di autonomia e di consapevolezza della situazione di malattia in cui si trova».
Resta un tabù
Parlare di fine vita resta spesso un tabù: «Gli ultimi momenti della vita sono estremamente complessi. Come cure palliative ci occupiamo in fondo di una traiettoria lunga della malattia. Purtroppo ancora oggi circola il mito che le cure palliative siano dedicate unicamente ai pazienti che muoiono. In realtà la letteratura e tutta l’evidenza scientifica dicono chiaramente che le cure palliative si devono occupare dei pazienti che hanno una malattia cronicoevolutiva con prognosi di vita limitata in qualsiasi momento della loro malattia. Quindi a un anno, a due anni, a sei mesi di prognosi, poco importa. Se i pazienti hanno dei bisogni che la medicina palliativa può prendere in carico, bisogni di natura fisica, ma anche psico-sociale o esistenziale, allora ha senso coinvolgere chi si occupa di medicina palliativa, che siano i medici di famiglia, gli specialisti delle singole malattie o i team specializzati. Detto questo è chiaro che nel fine vita i conflitti di cui parlavamo prima possono essere esacerbati perché è un momento estremamente difficile, per il paziente stesso e per la famiglia. Quindi, di nuovo, è fondamentale riuscire a comunicare, a informare tutti sul fatto che ci si sta avvicinando al fine vita, che c’è una futilità di alcuni trattamenti, che magari non hanno più quello che chiamiamo senso. Tutto questo va anticipato, va preparato in modo adeguato, in modo da poter maturare una comprensione da parte del paziente e della famiglia. Se questa fase della vita in un percorso di malattia cronica non viene sufficientemente discussa, sarà difficile affrontarla con la necessaria consapevolezza e affrontare i temi di appropriatezza e futilità delle cure porterà inevitabilmente a una maggiore sofferenza».