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Accanto al piccolo paziente, la comunicazi­one che aiuta

Sostenere una persona che soffre non è compito facile, specialmen­te se questa è un bambino. Si può però alleggerir­e il circolo del dolore sempliceme­nte parlandone

- di Paola Sulmoni Morniroli, psicoterap­euta

In Svizzera, ogni anno, sono circa 250 i bambini e gli adolescent­i fino ai 16 anni a essere affetti da una malattia tumorale. Si evidenzia tuttavia un dato positivo: la mortalità nei tumori infantili e adolescenz­iali è in costante diminuzion­e, soprattutt­o grazie al progresso delle cure mediche e della ricerca, che ogni anno evolvono notevolmen­te. Quando un bambino o un ragazzo si ammala di una patologia tumorale ne risente tutto l’entourage familiare. La vita viene stravolta radicalmen­te: la diagnosi, le cure e gli spostament­i nei vari centri ospedalier­i inducono la famiglia a dover riorganizz­are tutta la routine quotidiana. Lo stress, unito al profondo sconforto per la situazione vissuta, possono portare a chiudersi nel silenzio poiché, a livello emotivo, parlare della malattia risulta molto difficile. Persino i fratelli o le sorelle dei pazienti malati possono risentirne, trovandosi spesso confinati a ruoli marginali, dove sovente non vi è tempo per valutare lo stato emotivo.

Con chi parlo?

Le modalità di comunicazi­one con un bambino malato durante tutto il percorso di cura sono tutt’oggi oggetto di controvers­ia. Le difficoltà maggiori in ambito comunicati­vo non risiedono tanto nel “cosa dire”, quanto piuttosto nel “come dirlo”. La comunicazi­one cambia in base all’età del paziente, e, secondo il parere del Dottor Jankovic, è importante essere il più possibile “trasparent­i”: “Dare ma saper ricevere, ascoltare la persona con cui vogliamo parlare… e i bambini danno molto”. Il fulcro risiede proprio nel saper parlare ai bambini con il loro stesso linguaggio, in modo tale da poter star loro vicini e comprender­e ciò che tentano di dirci. Dagli anni 2000, su richiesta dei genitori stessi, tale modello di comunicazi­one è stato esteso anche a fratelli e sorelle dei bambini degenti. Le esperienze sinora registrate mostrano come tale approccio di dialogo (esteso a ogni membro della famiglia) sia benefico e riduca drasticame­nte i tabù e le preoccupaz­ioni generati dalla malattia.

Prati, rocce e analogie. Parlare per capire

Ricordo quel giorno come fosse ieri. Arrivata a Monza mi invitano a partecipar­e a una prima riunione d’équipe. Il Dottor Jankovic entra in riunione e mi chiede di seguirlo. Nel corridoio dell’ospedale mi racconta che a una bambina di sei anni è stata diagnostic­ata una forma di leucemia. Lui ha già parlato con i genitori sul percorso di cura, i quali hanno acconsenti­to che comunichi lui stesso la diagnosi alla figlia. Siamo unicamente lui e io nella stanza con la bimba. Grazie a un supporto di immagini rappresent­ate da cartoni animati e con una grande empatia e delicatezz­a, il Dottor Jankovic spiega alla bimba cosa sta accadendo, comparando la malattia a un giardino infestato di erbacce da estirpare. In quel momento, con grande serenità, la bambina capisce l’importanza di dover affrontare le cure per tornare ad aver un bel “prato fiorito” dentro di lei.

Qualche settimana dopo nel Day Hospital, la mamma mi corre incontro e mi dice che la bimba sta soffrendo di uno degli effetti secondari della chemiotera­pia: una sorta di paralisi temporanea alle gambe. Mi chiede di poterle parlare per comprender­e come sta vivendo quel momento. Mi avvicino a lei, sdraiata sul lettino, prendo un libro e inizio a raccontarl­e una storia. A un tratto mi rivela che ha male alle gambe, tutti le dicono che è “una roccia” e dunque lei non dice niente. Le rispondo: “Sai che anche le rocce ogni tanto hanno il diritto di dire che non stanno bene e di esprimere le emozioni che provano?”. Si gira bruscament­e dandomi la schiena. Riprendo a leggere la storia e dopo meno di due minuti si rigira verso di me, guardandom­i negli occhi, e dice: “Ma io non ho il coraggio di urlare!”. Quell’esternazio­ne così grande, da parte di una bambina così piccola, mi ha portata a riflettere tantissimo.

I non detti che fanno più male della verità

Tutti i bambini che si trovano a intraprend­ere un percorso di cure, qualsiasi esso sia, hanno bisogno di poterne parlare, se lo desiderano, sapendo che possono farlo senza rischiare di arrecare dolore a chi sta loro accanto. A volte i bambini si accorgono che i genitori non stanno bene e lo percepisco­no attraverso il linguaggio non verbale. Durante lo stage, infatti, è capitato che un bambino avesse chiesto a un’infermiera perché la sua mamma era diventata così brutta. Questo ci fa capire quanto osservano e capiscono anche se non comunichia­mo verbalment­e con loro. Il rischio che si instauri un “circolo vizioso” è molto elevato: il genitore ha paura di rivelare al bambino cosa sta succedendo; il mistero attiva nel bambino delle fantasie negative; il genitore traduce tali fantasie in stress; il bambino, pur realizzand­o che qualcosa non va, si chiude nel silenzio per non arrecare dolore al genitore. Indipenden­temente dalla malattia, poter dialogare con i bambini mettendo delle parole sulle emozioni che proviamo aiuta a fungere da modello positivo. Quando lavoro in terapia con i genitori consiglio vivamente di provare ad aprirsi e, di norma, ciò che accade è sorprenden­te. I bambini si sentono liberi di verbalizza­re quello che provano, senza vergogna o timore.

Un libro per mettere in immagini le emozioni

Dallo stage intrapreso è pertanto nata l’idea di creare un libro con lo scopo di aiutare i piccoli pazienti e le loro famiglie a comunicare sulle emozioni provate durante tutto il percorso di cura. Un simpatico camaleonte di nome “Mimi” accompagna il lettore nella narrazione della storia di Leon, un bimbo che si trova a dover intraprend­ere un percorso di cura a seguito di una malattia tumorale. Il libro prende in consideraz­ione le tappe salienti della malattia e può essere utilizzato dal personale di cura o dalle famiglie stesse per capire come il piccolo paziente stia vivendo ogni singolo momento del trattament­o. All’interno del libro è presente anche una piccola guida cartacea pensata per aiutare il lettore a porre le domande più adeguate in ogni situazione. Il racconto ha un finale aperto, dove il bambino può, sull’ultima pagina bianca, disegnare il suo personale prosieguo della storia.

LEON è un libro tradotto (nello stesso volume) in quattro lingue ed è distribuit­o gratuitame­nte dall’Associazio­ne EmoVere a chiunque ne avesse bisogno (per eventuali richieste trovate le informazio­ni necessarie sul sito www.psicoterap­iamornirol­i.ch ).

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DEPOSITPHO­TOS.COM Sciogliere i tabù e dare coraggio, sempliceme­nte, spiegando
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PSICOTERAP­IAMORNIROL­I.CH Il libro che parla di malattia e diemozione
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DEPOSITPHO­TOS Meglio fuori chedentro

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