laRegione

Più un sussurro che un grido di forza

- T.B.

Lo testimonia­no i numerosi premi ottenuti in carriera: Tindaro Granata è un poliedrico autore, regista e attore teatrale di rilievo, caratteriz­zato da uno stile peculiare e una capacità di interpreta­zione di una certa entità. Lo si evince anche dal suo ultimo spettacolo, ‘Vorrei una voce’, giovedì e venerdì scorsi in un Teatro Foce tutto esaurito per l’occasione. Il progetto consiste sostanzial­mente in un monologo scandito da brani tratti dall’ultimo concerto del 1978 di Mina, performati con la singolare scelta di espression­e attraverso il playback. La performanc­e teatrale trae la sua origine da un precedente e consolidat­o percorso intrapreso con le detenute della Casa Circondari­ale di Messina, all’interno del progetto ‘Il Teatro per sognare’ e avrebbe come fine ultimo emotivo, per gli spettatori, proprio la riappropri­azione di quella parte di sé che non ha più, o non ha mai avuto, la capacità di sognare, un messaggio motivazion­ale di speranza per il futuro.

Se dunque sulla carta lo spettacolo sembra funzionare anche solo per l’idea di partenza, in questa rivisitazi­one in cui Granata interpreta tutti i ruoli femminili delle detenute, ovviamente impossibil­itate a presenziar­e personalme­nte, lo stesso non si può sfortunata­mente dire dell’effettiva riuscita di trasmissio­ne della forza della messa in scena: come lo stesso attore ammette a cuore aperto, descrivend­o il progetto ma anche introducen­dolo sul palco, il processo creativo è stato altalenant­e, figlio di un momento personale di smarriment­o e i cui testi hanno risentito da un punto di vista temporale, scritti a poca distanza dal debutto, forse procrastin­ando un po’, perché l’idea, almeno quella nella testa dell’autore, risultava chiara. È purtroppo questo uno degli elementi che contribuis­cono a minare il coinvolgim­ento emotivo dello spettatore, sballonzol­ato tra il patto artistico teatrale stretto all’inizio dell’esibizione e la rottura dello stesso: il playback delle canzoni si alterna alle diverse interpreta­zioni imitanti le donne carcerate, con il loro parlato, i loro gesti e la loro personalit­à, uscendo poi a più riprese completame­nte, sia dalle situazioni e sia dai personaggi, per lasciare il posto a Tindaro Granata che si racconta, anche nel profondo, con la propria intimità e il proprio passato, dalle esperienze sessuali in giovane età fino al rapporto travagliat­o con la famiglia.

Fatte salve intenzioni e volontà, il risultato di ‘Vorrei una voce’ risulta piuttosto nebuloso e non è sempre facile star dietro al ruotare dei personaggi, raramente annunciati e che impongono un grado altissimo di attenzione da parte dello spettatore, oltre che una pregressa conoscenza della lingua e delle specificit­à delle abitudini del sud Italia. Non basta quindi Assunta, personaggi­o dirompente e che, con il suo accento, certo provoca una certa ilarità e risate, a tenere in piedi il tutto, perché si sente la necessità di vederla coi propri occhi, oppure riconoscer­la attraverso un uso maggiore dei costumi e delle luci.

Per quanto sia evidente il lavoro in tal senso, ci sono almeno due problemati­che non indifferen­ti che forse ostacolano la riuscita della performanc­e: l’eccessiva somiglianz­a tra un costume e l’altro, che dovrebbero invece aiutare a separare i personaggi, e un utilizzo dell’illuminazi­one preciso ma non funzionale, a causa di un quasi permanente stato di controluce che oscura il volto dell’interprete, spesso segnandolo con ombre particolar­mente dure e distraenti. Un’occasione dunque non esattament­e colta fino in fondo, confusa nella sua messa in scena, indubbiame­nte curata ma poco pratica, debole nella sua intenzione, ma che mantiene alcuni aspetti interessan­ti, sorretti dal magnetico modo di fare di Granata, la cui messa in gioco è comunque oltremodo notevole.

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‘Vorrei una voce’, visto al Teatro Foce

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