Nel Paese del Drago a caccia della felicità
Nei monasteri del regno himalayano, dove acquistare sigarette è illegale, non ci sono semafori, l’ambiente è venerato, tutto è ritmato da rituali antichi. Ma molti giovani emigrano. Tante sfide per il nuovo premier
Dove si trova mai un governo che misura il proprio successo in base alla felicità e al benessere dei suoi cittadini? Beh, uno c’è: il Bhutan. Almeno ci prova. Anche se le sfide sono tante. La prima è l’emigrazione di molti giovani. Sono tempi duri anche nella terra del drago tonante, dove il Pil (Prodotto interno lordo) è stato sostituito dal Fil (Felicità interna lorda), dove sanità e scuole sono gratuite, dove l’ambiente è quasi venerato (infatti le foreste devono coprire almeno il 60% del territorio ed è quindi vietato tagliare gli alberi), dove il riso è rosso e il peperoncino c’è in ogni piatto, dove la vita è basata sul buddismo, che ispira anche le leggi dello Stato. Eppure vari giovani stanno lasciando il Bhutan perché non c’è abbastanza lavoro ben retribuito. I salari sono migliori in Australia, dove in molti (si stima il 12% in due anni) sono emigrati per studiare e lavorare. “Lasciano i figli ai nonni e partono, all’aeroporto di Paro si moltiplicano le lacrime”. Per le strade della capitale, Thimphu, si notano effettivamente varie insegne ‘affittasi’. “Troppo sfitto – mi spiega un espatriato incontrato al Ambient Café – sta mettendo in difficoltà vari proprietari che faticano a pagare le banche”. Problemi nuovi che non hanno fatto vacillare la politica di lunga data del piccolo regno himalayano – incuneato tra Cina e India, in equilibrio fra passato e futuro – di dare priorità alla “felicità interna lorda” rispetto alla crescita. Una filosofia che attribuisce valore a concetti come eredità culturale, famiglia, salute, istruzione e al benessere dell’individuo. Una sfida per il nuovo primo ministro (fresco di nomina), Tshering Tobgay, che dovrà creare posti di lavoro in un Paese dove una persona su otto “fatica a soddisfare i propri bisogni di cibo”.
Cento dollari al giorno solo di tasse
Il turismo, una delle principali fonti di valuta estera, sta riprendendosi, dopo uno sofferto stop di 2 anni per via della pandemia. Chi vuole visitare il Paese, deve pagare una tassa giornaliera di cento dollari, a cui vanno aggiunte le spese per vitto, alloggio, guida e trasporti. È una meta costosa. Eppure di turisti, soprattutto europei, ne abbiamo incontrati diversi, attratti dal fascino di un mondo fuori dal tempo, in equilibrio tra tradizioni e modernità, dove respirare ancora gentilezza e una sacralità profonda, tra rituali e leggende, che attraversa la quotidianità della gente. Molti laghi, ad esempio, sono ritenuti dimora di divinità (le chiamano Naga) che non vanno disturbate, quindi meglio non nuotare, gettare sassi o sporcare l’acqua.
Nei giorni sfortunati non si vola
Ci sono giorni fortunati e giorni sfortunati. In quelli negativi, ad esempio, non si inizia un viaggio. Chi deve partire trova escamotage per aggirare gli ostacoli delle stelle. Mi spiegano: “Se hai il volo in un giorno sfortunato, fai la valigia la sera precedente, la metti in auto, fai un pezzo di strada, poi torni a casa. Così il viaggio è iniziato il giorno precedente. Eviti la sfortuna”. Se non l’avessi visto coi miei occhi non avrei mai creduto che l’astrologia potesse influenzare tanto il quotidiano.
Un viaggio in Bhutan è un’opportunità per immergersi in uno stile di vita diverso, dove l’invisibile è talvolta più importante del visibile, con approcci al vivere forse per noi difficili da praticare, ma che sanno trasmettere una serenità che si rimpiange una volta tornati a casa.
Soprattutto soggiornando nei monasteri. Ce ne sono oltre 500, tanti maestri, lama e rinpoche. Monaci e laici, monasteri e villaggi sono legati indissolubilmente. Gli uni dipendono dagli altri in un mondo scandito da rituali e credenze. Che sia per purificare la casa, per accompagnare un morto nel suo viaggio oltre, per decidere quando sposarsi, edificare una nuova abitazione o avere un figlio/a, per guarire, per iniziare un nuovo progetto, per una decisione statale... insomma gran parte della quotidianità, col suo fardello di imprevisti, è ritmata da complessi rituali, mantra, campanelle, divinazioni e divinità protettrici. Al centro, monaci e monache che sanno leggere oltre, hanno accesso a mondi invisibili, energie e benedizioni che ‘piegano’ verso chi ne ha bisogno. E la comunità, in cambio, li sostiene con cibo e donazioni.
‘Troppi desideri causano guerre’
“Più gli esseri umani fanno cose brutte, più irritano gli spiriti malevoli che influenzano soprattutto quelle persone già predisposte al male. Troppi desideri non vanno bene! Portano alle guerre”, mi confida l’abate del monastero astrologico Pagar, arroccato quasi in cima a una montagna, a due ore circa da Paro. Per arrivarci ci si arrampica per 40 minuti di strade polverose e dissestate. Qui una trentina di monaci studiano, pregano, giocano a calcio. Si respira un’atmosfera cristallina, semplice. È tutto uno svolazzare di tuniche color granata di monaci indaffarati, tra una lezione e l’altra. La loro è una presenza gentile, riservata, mai invadente. Ha un bel sorriso, la simpatica maestra di inglese, l’unica donna al monastero. Attorno all’imponente tempio color oro, con draghi dipinti sulle colonne, domina il rosso fuoco del chili lasciato a essiccare sui tetti. Alle 5.30 di mattina suona la campana che chiama al primo rituale del mattino nel grande tempio, dove si recitano preghiere per tutti gli esseri del pianeta. Il profumo dell’incenso è intenso, le statue enormi dei Buddha pare che ti scrutino, mentre risuonano i mantra dei monaci, ritmati da trombe e tamburi. Qualche bimbo, assonnato e infreddolito, esplode in un gioioso sorriso appena incrocia il mio sguardo.
I più poveri vanno in monastero
Alcuni sono orfani, altri vengono da famiglie povere, alcune famiglie mandano un figlio in monastero per acquisire meriti spirituali. Non per tutti è così. Per Tashi, diventare monaca è stata una scelta. “L’ho voluto fortemente per dimostrare che come donna potevo arrivare in alto come un uomo”. Infatti ha vari incarichi di responsabilità al monastero femminile Pema C. (dove vivono 200 monache) nel cuore del Paese, nella regione del Bumthang (chiamata la piccola Svizzera). Qui la notte fa davvero freddo. A scaldarti in camera, oltre al sacco a pelo trovo una ‘buiotte’ elettrica. Una monaca se ne è privata per far stare al caldo l’ospite.
Per arrivare in questo angolo di pace e ritiro, abbiamo superato tre passi (oltre i tremila metri), con strade simili alla vecchia tremola del Gottardo. Dopo 8 ore d’auto si giunge in una regione davvero unica, meta di trekking tra vallate immense e disabitate, ricoperte di folte foreste, pinete e bambù, giganteschi alberi di rododendri e ricca di luoghi sacri. Non di rado si incrociano sul cammino orsi. In mezzo alle vette himalayane tanti piccoli villaggi e gli dzong (cittadelle-fortezze), centri amministrativi dei vari distretti e monasteri insieme. Per entrarci tutti i bhutanesi devono indossare il costume tradizionale: il gho gli uomini e la kira le donne, tuniche dai vivaci colori legate in vita da una cintura.
Bellissimo lo dzong di Punakha (risale al 1637), collocato alla confluenza di due fiumi (uno femminile, l’altro maschile), dove si respira la quintessenza della serenità monastica ed è dove viene incoronato il re del Bhutan. Mentre il monastero più fotografato e spettacolare è sicuramente il Taktshang Goemba, la tana della tigre. Arroccato su un dirupo a 900 metri dal fondovalle, si raggiunge con una salita di 3 ore. Guru Rimpoche, secondo la leggenda, ci arrivò a cavallo di una tigre per sottomettere il demone della zona e lo ancorò allo strapiombo con i capelli delle dakini, le entità celesti femminili.
Lo sciamano e il cellulare baby sitter
Miti, divinità e spiriti disturbanti. Sono credenze ben radicate nei villaggi. Quando qualcuno è malato si va al monastero per un rituale, se non funziona si consulta lo sciamano e infine si va in città dal medico. Così mi raccontano da una famiglia dove dormo in un remoto villaggio nel cuore del Paese. La sera si sta tutti stretti attorno all’unica stufa, dove bolle sempre l’acqua per il tè. Verso sera arriva lo sciamano per guarire la padrona di casa. Avrà sui 70 anni, sguardo vivace, fare calmo, fa la sua divinazione leggendo come cadono i chicchi di riso. L’‘uomo di medicina’ sentenzia che la colpa della malattia sono spiriti negativi da placare e inizia un rituale per pacificarli. Totalmente disinteressati i ragazzini di casa che non si staccano un momento, come ipnotizzati, dal cellulare (baby sitter) dei genitori. Intanto gli adulti seguono il rituale, stretti attorno alla malata.
Internet vietato fino al 1999
Antico e moderno, tradizioni e tecnologia, passato e futuro, dovranno trovare un equilibrio in questo piccolo (ci vivono 800mila persone) Paese, dove internet è stato vietato fino al 1999, dove non si può fumare (gli stranieri possono portare sigarette, ma le devono dichiarare all’ingresso), dove non ci sono semaforima agenti che con i guanti bianchi dirigono il traffico. E loro, i reali, con la loro storia da favola, fanno capolino da tutte le case. Diventati genitori per la terza volta, il re del Bhutan Jigme Khesar Namgyel Wangchuck, 43 anni, e la regina Jetsun Pema, 33 anni, hanno appena avuto la terza e unica figlia. Ma è sotto il governo del quarto re del Bhutan (padre dell’attuale re drago) che il paese si è trasformato da una monarchia assoluta a una costituzionale.