Il pensiero magico
Nel novembre 2016, a due giorni dalle elezioni americane, ad alcuni giornalisti che si occupavano di politica estera fu sottoposta una mappa interattiva degli Usa in cui veniva chiesto di predire in quali Stati avrebbero vinto i due candidati, Hillary Clinton e Donald Trump.
La mappa calcolava il numero di Grandi Elettori per Stato e poi sputava fuori il nome del presidente. Uno dei giornalisti si accorse – con sorpresa – che aveva fatto vincere Trump, seppur per una manciata di voti. E la cosa non gli piacque. Così cambiò lo Stato più in bilico a favore di Clinton, ribaltando il risultato come nemmeno Borghese (lo chef di ‘4 Ristoranti’, non quello del golpe).
Quel giornalista era il sottoscritto. Non mi ero fidato dei dati che avevo consultato, né di certi articoli documentati che andavano contro le mie idee, tantomeno del mio istinto e delle opinioni raccolte (nonché di fatti visti con i miei occhi) negli ultimi viaggi in America.
L’ho capito dopo, quando Trump ha vinto con un margine ancor più ampio di quello predetto, che avevo piegato la realtà ai desideri. Non che fossi un fan di Clinton (anzi), ma Trump presidente mi pareva inaccettabile. O meglio, pareva inaccettabile a quella parte irrazionale e – diciamolo – infantile che vorrebbe che il mondo fuori andasse come stabiliamo noi dentro. Un collega mi confessò poi di aver barato in quel test, proprio come me, pur di dare ragione al sentimento e non alla ragione. D’altronde questo pensiero magico, per cui sotto sotto crediamo nell’incredibile – che la nostra squadra sotto di tre gol possa pareggiare, che il nostro biglietto della lotteria sia quello vincente o che se solo potessimo bere un caffè con Margot Robbie magari la faremmo innamorare – non è una rarità. E non è sempre un male. A volte ci aiuta davvero a vincere lotterie e partite perse.
Tornando in America, democratici, repubblicani anti-Trump e lo stesso Trump stanno dimostrando che il “pensiero magico” non ha passaporto, età, sesso, né colore o credo politico. Lo stanno applicando i conservatori dell’ala meno oltranzista che continuano a sperare che Nikki Haley possa attraversare indenne lo tsunami primarie dopo essere già riemersa boccheggiante dalle prime due ondate. Magari vincendo nella “sua” Carolina del Sud: peccato che restino poi altri 47 Stati da convincere. E chi fa un parallelo con il Barack Obama del 2008 dimentica il suo innato carisma, una campagna social perfetta per tempi e modi, il contesto diverso e la debolezza della candidata dell’establishment (proprio Clinton). Trump, il bambino più capriccioso di tutti, non accetta invece che Haley, nonostante le sconfitte pesanti, non si sia ancora ritirata. E così lui frigna e le dà apertamente della “gallina”, irritato da un pensiero magico che non sempre porta i fatti a piegarsi a ogni suo volere (e con l’assalto al Congresso avevamo già avuto un nitido esempio a riguardo).
Pensiero magico è sia quello di Biden (crollato in ogni sondaggio e sempre meno popolare) che di quei democratici che si affiderebbero alla candidatura lampo di Michelle Obama per rimettere in sesto un partito che il presidente ha fatto afflosciare su sé stesso. Ma lei – per quanto possa sembrare all’altezza – non è suo marito. Non si sa che programmi avrebbe, cosa farebbe, con chi. Insomma, dovrebbe vincere – per alcuni – solo in quanto Obama. Come Clinton avrebbe dovuto vincere in quanto Clinton. E se il pensiero magico nei contesti sbagliati è un errore fatale, il familismo esasperato della politica Usa (e non solo) è pure peggio.