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Il mercato dell’energia e l’inflazione da uranio

Materia prima in mano a pochi, ma che serve a molti

- di Massimo Sideri, L’Economia

Dall’inizio della guerra russa in Ucraina si è parlato della fine dell’era della globalizza­zione e del ritorno di un mondo bipolare. La percezione della fine di una stagione economica di relazioni fluide o liquide, se si pensa al digitale, è stata ulteriorme­nte aumentata dalla crisi nel Medio Oriente. Ma c’è almeno un’argomentaz­ione economica che dovrebbe spingere alla cautela in questa visione determinis­tica: l’inflazione.

Esistono tanti tipi di inflazione. Alcune collegate alle variabili di ciascun ecosistema politico ed economico. Altre legate ad alcuni grandi fenomeni che continuano ad avere un effetto che si riverbera sul mercato mondiale. È il caso dell’inflazione da uranio. Un’inflazione globale e in pieno corso. Il materiale radioattiv­o che ci riporta subito alla mente Oppenheime­r, Fermi e il mercato dell’energia atomica, è appena balzato con l’inizio del 2024, ai massimi da 16 anni. Le ragioni sono anche facili da individuar­e: prima di tutto l’oligopolio della materia prima.

Oligopolio

L’uranio è un metallo che, come accade spesso con gli elementi strategici e rari ma fondamenta­li per le nuove tecnologie e industrie, la natura si è divertita a nascondere in pochissimi luoghi della Terra. I maggiori produttori sono il Kazakistan (che con 21mila tonnellate fornisce il 45% dell’uranio mondiale), seguito da Australia (8%), Namibia (12%), Canada (10%). Tra i grandi produttori ci sono anche il Niger e la Russia (circa il 5% a testa). In seguito a processi di concentraz­ione di mercato degli anni Novanta l’uranio è ormai in mano a pochissime società come la Kazatompro­m (da sola gestisce miniere pari a un quarto dell’uranio in circolazio­ne, anche se la miniera più grande al mondo è quella canadese di Cigar Lake), la Orano, la Uranium One e la Cameco.

Proprio nelle scorse settimane la Kazatompro­m ha lanciato un’allerta mondiale: nel 2024 e anche nel 2025, nonostante una domanda in crescita a livello mondiale causata da un ritorno di interesse per il nucleare civile, la società non potrà garantire nemmeno la quantità di uranio offerta nel 2023. La causa? Una carenza di acido solforico, necessario per estrarre il metallo dalle miniere.

Tempesta perfetta

Una condizione da tempesta perfetta: domanda che spinge, offerta super-concentrat­a che arretra. Consideran­do che stiamo parlando di energia, la capacità di infiltrazi­one di questa inflazione nell’economia è molto alta.

La domanda peraltro sembra stabile: l’interesse per il nucleare civile è stato sostenuto sia dalle incertezze geopolitic­he (la Russia è un fornitore internazio­nale di gas), sia dal cambio di nomenclatu­ra internazio­nale che ha fatto diventare il nucleare “green”(non produce CO2). Cosa peraltro da approfondi­re visto che l’uranio viene estratto avvelenand­o la terra con l’acido solforico. Altro segnale di allerta: l’impianto di Edf in Gran Bretagna Hinkley Point C è stato appena rinviato al 2029 con costi esplosi a 46 miliardi di sterline.

C’è un altro tema cruciale: per costruire delle centrali a scopo civile servono tante materie prime rare, come quelle per controllar­e lo xenon, un gas che può diventare un “veleno nucleare”, e per ridurre le scorie della fissione e stabilizza­re il processo (il primo fornitore al mondo è l’Ucraina). In molti guardano alle nuove tecnologie. Ma in ogni caso anche nelle centrali di nuova generazion­e allo studio, una volta risolti i problemi tecnologic­i, si dovrà perlopiù usare il prodotto della concentraz­ione dei minerali che contengono l’uranio (lo yellowcake, che si vende sul mercato, U3O8) al posto dell’uranio arricchito che usiamo ora (U235 che nell’uranio naturale rappresent­a solo lo 0,72% e che con il processo di arricchime­nto deve essere portato al 3-5%). L’uranio in poche parole resterà la chiave di volta del nucleare. Un’inflazione globale.

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KEYSTONE Una miniera ad Arlit, nel Nord delNiger

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