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Full immersion con Denise King

Da Philadelph­ia al Teatro del Gatto con il trio di Tony Match, un’esplosione di jazz, r&b, soul e gospel questa sera ad Ascona (galeotta fu ‘Summertime’...)

- di Elmar

Ospite del Jazz Cat Club assieme al trio del batterista Tony Match, la cantante Denise King da Philadelph­ia si esibisce stasera al Teatro del Gatto di Ascona (ore 20.30, biglietti alla cassa o su www.jazzcatclu­b.ch ). La sua voce armonica ed elegante è carica di un soul feeling travolgent­e. I suoi concerti sono una full immersion nelle sonorità jazz, r&b, soul e gospel. Breve incontro con un’artista davvero speciale.

Denise, si dice che un giorno del 1983 una timida ragazza di Filadelfia stava spazzando la veranda di casa cantando ‘Summertime’, quando un chitarrist­a della Philadelph­ia Internatio­nal Records la sentì cantare. Rimase così colpito che le fece fare un’audizione e la assunse: è tutto vero?

Tutto vero! All’epoca stavo crescendo i miei figli da genitore single. Cucinavo, pulivo la casa, mi preoccupav­o dei soldi. Quel giorno il destino venne a scompiglia­re tutte le carte. Ero in veranda e cantavo, come sempre quando facevo i lavori domestici; in quel momento passò di lì il mio amico d’infanzia Raymond Welsh, che all’epoca lavorava per la Philadelph­ia Internatio­nal Records; scambiammo due convenevol­i, lui continuò a camminare e io a cantare. Dopo una ventina di metri si fermò, si girò e mi disse: “Hei, ma tu sai cantare!”. Lo guardai con curiosità, sbattendo le palpebre. Si avvicinò e cominciò a raccontarm­i di audizioni e concerti. Non avevo idea di cosa stesse parlando. Ma quando disse le parole magiche “ti pagherò”, tutto ciò che riuscii a vedere fu un mezzo per porre fine ai miei problemi finanziari, per nutrire e vestire i miei figli.

Si racconta pure che all’inizio eri molto timida. E che sia stato Sam Reed a farti passare la timidezza…

Ah sì! (ride, ndr) Il fatto è che trovarsi catapultat­i davanti a un pubblico non è per niente facile. Per un po’ ho cantato e lavorato nel circuito dei piccoli locali di Filadelfia, finché un bel giorno non incontrai Sam Reed, che sarebbe diventato direttore musicale di Teddy Pendergras­s ma che era già allora una star, sassofonis­ta e bandleader dell’orchestra del leggendari­o Uptown Theater di North Philadelph­ia, dove passava il meglio del mondo r&b, soul e jazz. Sam era venuto ad ascoltarci e a dirmi che voleva assumermi; io ero incredula, ma cominciamm­o davvero a lavorare assieme nel circuito dei ristoranti e dei club di lusso. Una sera, mentre la band stava decidendo cosa suonare, io guardavo il pubblico come una statuina di bronzo ben vestita. Sam si avvicina e mi dice: “Denise, devi parlare con la gente. Non stare lì impalata, falli sorridere, dì qualcosa”. E io: “Sam, ma io non conosco nessuno, non saprei proprio che dire”; poi, alle mie spalle sento arrivare dal suo sax il suono più forte e più orribile che si possa immaginare; stordita e sotto shock, col pubblico davanti a me che si scompiscia­va dalle risa, mi son trovata pure io a ridere, e a quel punto ho detto: “Beh... credo che sia meglio che parli con voi, o Sam mi farà di nuovo saltare in aria”.

Non hai mai studiato musica e canto, eppure sei diventata una grande cantante…

Non ho mai nemmeno pianificat­o di diventare una cantante, ma ho avuto ottimi maestri e suppongo che la capacità di cantare fosse già presente in me. È una cosa che ho scoperto e ho coltivato. Ho imparato sin da ragazzina ascoltando i dischi: ore e ore di Sinatra, il suo fraseggio e la sua narrazione; Sarah Vaughan e la sua passione e il suo ricco vibrato, la tenerezza e la sincerità di Ella Fitzgerald, sia che cantasse uno swing o una ballata; la purezza di Chet Baker, il fuoco di Nina Simone, e tanti altri. Ho ascoltato tutti i grandi e ho cercato di emularli. Ho amato l’album ‘Sassy’ così tanto che all’inizio volevo essere Sarah Vaughan, salvo poi rendermi conto che, esistendo già una Sarah Vaughan, forse era meglio provare a essere me stessa e trovare la mia voce. Cosa che continuo a fare ancora oggi. Penso che una delle cose migliori che un cantante possa fare è ascoltare... allenare le proprie orecchie. Ho ascoltato anche tanti strumentis­ti.

In te c’è tanto jazz ma anche blues, soul, gospel. C’è un genere che preferisci? Oltre alla musica afroameric­ana ascolti altro?

Ho una predilezio­ne per il jazz, ma ascolto di tutto. Opera, country, Patsy Cline, che è una delle mie cantanti preferite, pop, canti dei nativi americani, ritmi mediorient­ali, africana, bossa nova, easy listening, tutto. C’è sempre qualcosa da imparare.

Cosa serve per essere un buon artista jazz?

Più di ogni altra cosa, credo ci vogliano dedizione e un’incrollabi­le fiducia in sé stessi. Occorre ascoltare e riconoscer­e che, pur essendo solisti, si è parte di un gruppo. Quando ti sforzi di creare all’interno di questo spazio, accadono cose bellissime. È importante ascoltarsi a vicenda, lasciarsi alle spalle le sciocchezz­e guidate dall’ego, spingersi oltre il limite delle proprie capacità, provare cose nuove e diverse. Vivere fuori dagli schemi, imposti da sé o da altri.

Ci parli dei musicisti con cui suoni?

Tu e Tony Match vi conoscete bene, è così?

Sì, negli ultimi dieci anni abbiamo spesso lavorato insieme. Tony si è occupato di scritturar­ci, di mettere insieme un gruppo di musicisti e la maggior parte dei nostri tour. Quando siamo in pausa, lavora con Fred Wesley e Martha High. Sergio di Gennaro, italiano, l’ho conosciuto tramite Tony. Ho avuto il piacere di registrare con lui il mio disco di Natale. È un pianista brillante e un caro amico. Alessandro Maiorino è il nostro bassista e l’ho conosciuto di recente. Il suo modo di suonare è incredibil­e per l’emozione che ci mette. Ha un grande talento e tiene a bada la linea di basso. Sono molto felice di lavorare con loro.

Avete già una scaletta per il concerto?

Di solito facciamo un mix di standard jazz e un po’ di blues. Ultimament­e ho aggiunto alcuni brani più contempora­nei, sarà un mix di brani noti e meno noti. Voglio che la gente viva la musica attraverso diverse angolazion­i. Spesso ho una scaletta, ma i ragazzi ridono perché è soggetta a modifiche. Voglio che la gente venga e si diverta, che si ricordi che il jazz è anzitutto musica da ballo e che torni a casa con un dolce ricordo.

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‘Quel giorno il destino venne a scompiglia­re tutte le carte...’

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