laRegione

Io non sono razzista ma...

- di Roberto Scarcella

“Non siamo noi che siamo razzisti. Sono loooooro che sono napoletani”. Era questo lo slogan declamato in tv – in una surreale tribuna politica di inizio anni Novanta – da Giobbe Covatta, segretario (con accento napoletano) della Liga (con la i) Lombarda, parodia delle nascenti leghe e della loro strategia semplice ed efficaciss­ima in cui il colpevole era, è e sempre sarà, “l’altro”: il terrone, il frontalier­e, l’italiano, il migrante, il rifugiato, l’africano, l’extracomun­itario o il comunitari­o, a seconda delle latitudini, del piede al di qua o al di là di un confine e dei bisogni contingent­i di chi parla e cerca voti pescando a strascico. Commenti simili – ma ahinoi totalmente privi della carica ironica di Covatta – sono apparsi sui social network de laRegione in coda all’articolo “Ricorsi contro il foyer per asilanti minorenni a Cresciano” in cui si racconta dell’opposizion­e a carte bollate di un gruppo di persone a un centro per dare alloggio a 15-20 giovanissi­mi richiedent­i asilo (perlopiù afghani) senza genitori o parenti. A leggere il pezzo, i ricorrenti spiegano di non essere contrari per principio, “ma alla modalità con cui è stata fatta la domanda di costruzion­e”. Se c’è anche un retropensi­ero non è dato saperlo. Di sicuro ci sono i pensieri – anche se si fa fatica a definirli tali – degli incattivit­i della Rete, che danno l’idea di questo egoismo imperante, di un razzismo da pianerotto­lo dove il nemico si annida dappertutt­o, perfino in una dozzina di ragazzini fuggiti da un buco nero dove le donne devono avere il burka, ma non l’accesso all’istruzione, dove non c’è musica alla radio. E dove non c’è musica – per quanto possa sembrare futile – non c’è vita, non c’è speranza, non c’è niente.

È che la pietas non esiste più, a forza di vivere chiusi dentro ai nostri telefonini come pendolari incattivit­i nelle loro auto dentro al traffico, a inveire contro tutto e tutti, tanto c’è un vetro (o uno schermo) a separarci dalla realtà. Ma non è così, quel che diciamo e scriviamo esiste, siamo noi. E quindi ecco, così come sono scritti (con un minuto di silenzio per ortografia, grammatica e punteggiat­ura), certi ritratti: “I soldi per gli asilanti ci sono e per gli Svizzeri in difficoltà non ci sono vergognoso”; “fanno solo danni, mantenuti dagli svizzeri a fare nulla e ubriacarsi”. O ancora “… i soldi per questi qua ci sono sempre. Che vergogna questo Ticino, con una politica che fa Aqua da tutte le parti”. C’è pure chi cita inconsapev­olmente Covatta: “Non siamo razzisti, ma purtroppo noi Svizzeri Ticinesi... siamo stufi. Chi è così altuista perché non se ne porta a casa sua qualche profugo e se lo mantiene in tutti i sensi?”.

La solita solfa, insomma, con il web che sovrappone Cresciano e Melbourne dopo il trionfo di Jannik Sinner agli Open d’Australia. Una piccola (ma rumorosa e nemmeno così rumorosa) parte di Italia, infatti, ci ha tenuto a far sapere al mondo che quella vittoria non è in loro nome, perché Sinner “non è italiano”, in quanto altoatesin­o e madrelingu­a tedesco. Una strana teoria. Razzista. Perché l’Alto Adige sta in Italia come il Ticino in Svizzera. Sarebbe come se a Zurigo si dicesse che i ticinesi non sono svizzeri, ma italiani solo perché appartenen­ti a una minoranza linguistic­a.

A chiudere il cerchio aperto da Covatta – e insozzato dagli xenofobi da tastiera e da marciapied­e – c’è il rapper Willie Peyote quando canta: “Chi dice ‘io non sono un razzista ma’ è un razzista ma non lo sa”.

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