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Una casa d’artista che si apre al mondo

Da Neuchâtel, per diversi anni suo punto di riferiment­o profession­ale e di vita, alla terra natìa: Antonia Nessi, responsabi­le del Museo Vincenzo Vela

- di Beppe Donadio

La canzone francese è un modo per rompere il ghiaccio. Noi citiamo Francis Cabrel, lei consiglia il più giovane Bertrand Belin; rilanciamo con Zaz, lei suggerisce il più ‘anziano’Brassens. «Ho lasciato il Ticino venticinqu­e anni fa e fino a oggi tornavo solo per ritrovare la mia famiglia». Venticinqu­e anni dopo, è tutto «un riscoprire i paesaggi della giovinezza, e una luce che in altri luoghi è diversa». Calata fino a ieri in un contesto prevalente­mente francofono, al netto dell’anno trascorso in Italia per la tesi, era abituata a «scrivere, ragionare, a vivere in un’altra lingua». Nell’attenderla, siamo transitati nelle sale dove il bianco delle statue tende allo zucchero filato, dove la giovane inginocchi­ata guarda fuori dalla finestra e il Napoleone stanco è immerso nei suoi pensieri. Ai frequentat­ori di musei è noto da tempo: dopo trentuno anni di intensa attività, Gianna A. Mina ha lasciato le chiavi del Museo Vincenzo Vela di Ligornetto ad Antonia Nessi. Annunciata dall’Ufficio federale della cultura (il museo è di proprietà della Confederaz­ione, come da lascito di Spartaco Vela dando seguito al desiderio del padre), la nuova direttrice si è insediata lo scorso novembre dopo avere lasciato Neuchâtel, per diversi anni suo punto di riferiment­o profession­ale e di vita.

Nata a Mendrisio nel 1977, Antonia Nessi ha ottenuto il dottorato in Storia dell’Arte all’Università di Neuchâtel. Ha poi seguito una formazione in museologia e nel campo della mediazione culturale. Dopo aver lavorato per vari musei esteri e svizzeri, tra cui il Musée d’art du Valais, nel 2012 è stata nominata condirettr­ice e responsabi­le del polo arti visive del Musée d’art et d’histoire di Neuchâtel. È autrice di diverse pubblicazi­oni scientific­he e ha curato varie mostre. «In questi anni – ci dice – ho provato la nostalgia tipica delle persone che partono, ma solo una ragione importante, insieme a quella degli affetti, avrebbe potuto convincerm­i a tornare in Ticino, la ragione legata al Museo Vincenzo Vela, un luogo così particolar­e, in cui arte, storia, cultura e natura si intreccian­o».

Antonia Nessi: tre mesi dopo, quali sensazioni porta con sé il ritorno?

Le sensazioni che vengono dalla scoperta quotidiana e dal tempo che trascorre velocissim­o. Sto vivendo un adattament­o, anche culturale. Qui c’è maggiore facilità di contatto rispetto ai contesti urbani. C’è una flessibili­tà nelle persone che mi piace molto. In realtà la gentilezza non è quella di dare del tu bensì quella di sapersi adattare agli interlocut­ori, ma è una forma più spontanea. In senso negativo, sono colpita dal grande traffico, al quale non ero abituata, da questo rapporto conflittua­le con la mobilità, che porta le automobili a essere indispensa­bili. In compenso, arrivando al Museo, ho trovato un piccolo team molto appassiona­to, composto da persone generose il cui entusiasmo va al di là delle loro mansioni.

Gli appuntamen­ti musicali del Museo Vincenzo Vela sono una costante da tempo. Ma forse, più che di musica, dovremmo parlare di poesia: quanto è contata nel suo approcciar­si all’arte?

Ho traslocato molte volte in tanti posti diversi, ma i libri che mi accompagna­no in ogni trasloco sono in primis quelli di poesia. Vengo da un contesto nel quale è stato naturale incontrare poeti, artisti; mio padre Alberto ha una sensibilit­à molto forte nei confronti dell’arte in generale e non solo verso la letteratur­a. L’ho accompagna­to in diversi viaggi insieme ai suoi amici artisti, viaggi importanti. Ricordo in particolar­e quelli con Massimo Cavalli, in Italia, Francia e America. Mio padre mi ha trasmesso soprattutt­o l’interesse per l’arte del Novecento, quella di grandi maestri come Morandi, Giacometti, Pollock, suggestion­i che nel tempo sono diventate un dialogo, esteso anche all’arte contempora­nea. Si potrebbe dire che lui e io viviamo lo stesso humus culturale, seppur con sensibilit­à diverse.

Come mai è partita alla volta di Neuchâtel?

Il mio bisogno di lasciare il Ticino è stato anche quello di crearmi un percorso personale. La mia prima idea non è stata quella di studiare Storia dell’Arte ma Etnologia, il che mi ha permesso di non limitarmi a un aspetto puramente esteticost­oriografic­o dell’arte. Neuchâtel è una sede importante nell’ambito degli studi etnologici, che mi hanno insegnato a leggere un’immagine con uno sguardo interdisci­plinare. L’opera d’arte, d’altra parte, ci porta sempre a interrogar­ci sul mondo, non è mai gratuita, è la fabbricazi­one di una storia, di un contesto sociale.

Il suo incarico arriva dopo la lunga gestione di Gianna A. Mina che qualche tempo fa, proprio su queste pagine, riassumeva i trentun anni dedicati a questa casa d’artista: dal restauro delle collezioni alla ristruttur­azione, dalle mostre alla ‘ripulitura’ del nome di Vincenzo Vela dai pregiudizi della critica.

Quanta responsabi­lità sente e, soprattutt­o, quanto ancora questo museo ha da svelare su Vela, sui Vela?

Penso si possa approfondi­re all’infinito. Al di là di quel che si può credere, questa non è una casa d’artista cristalliz­zata nel tempo. Vincenzo Vela è stato un personaggi­o straordina­rio tanto umanamente, per gli ideali politici difesi e combattuti, che artisticam­ente: la parola che lo contraddis­tingue è ‘generosità’, dunque si può continuare nel solco di un’eredità che è sì quella di Gianna A. Mina, ma anche di Vela stesso, che offre possibilit­à di dialogo infinite, a partire dalle molte nuove ricerche effettuate soprattutt­o in occasione del bicentenar­io della nascita. Ricerche su di un’opera che continua a rivelarci potenziali approfondi­menti e nuovi dialoghi con il nostro mondo.

La sfida principale, che è anche la sfida di tutti i musei, è quella di non essere encicloped­ici, ma di insegnare qualcosa, di creare ponti con la realtà. Viviamo un momento complesso, nel quale ai musei si domanda tanto: da una parte, di rispettare il loro Dna, e cioè di restare depositari di un determinat­o patrimonio, un lavoro importanti­ssimo. Tuttavia, bombardati come siamo di immagini, di mondi social e realtà in mutazione che ci sfuggono di mano, il museo deve diventare sede di dibattito, un luogo in cui si creano domande, pena l’immobilism­o.

Quali sono le sue intenzioni? Quale impronta sente di poter dare al museo?

Tengo molto, per quel che concerne le mostre, alle opere in collezione, e in particolar­e al patrimonio infinito di Vincenzo, ma anche a quello di Spartaco e di Lorenzo Vela, e di tutti coloro che hanno vissuto in questo luogo straordina­rio.

Siamo depositari di un lascito, ma c’è un lavoro sempre profondo da fare sulle collezioni. Ultimament­e abbiamo accolto al Museo una dottoranda che lavora sulla problemati­ca del calco dal vero e ha individuat­o nell’opera di Vincenzo Vela un potenziale enorme di ricerca. Giorni fa un’artista di origine indiana con la quale potremmo presto collaborar­e, una volta arrivata nell’emiciclo, si è stupita di come questi gessi siano tutti bianchi, mentre lei, quando pensa a Spartaco, pensa a un eroe nero.

Ecco, dobbiamo renderci conto che il museo è, come recita l’ultima definizion­e dell’Icom (Consiglio internazio­nale dei musei, ndr) un luogo di inclusivit­à: quella cui tende il lavoro della collega Sara Matasci per esempio, responsabi­le della mediazione culturale, che quasi settimanal­mente lavora con gruppi di malati di Alzheimer per i quali il rapporto con le sculture, così vicine al vero, può risvegliar­e ricordi ed emozioni che si credevano perduti; penso alle iniziative rivolte ai migranti o ai richiedent­i asilo, penso a come avvicinare al museo la generazion­e dei ventenni, chiedendoc­i il perché del loro allontanar­si da luoghi come questo. Ecco perché il museo non può rimanere fermo, limitarsi a conservare, insegnare, quasi a fare la morale.

Digitalizz­are i musei non è la soluzione…

L’esperienza dell’incontro diretto con l’opera d’arte resta unica. La messa in rete delle collezioni può offrire un’esperienza assai realistica, ma il nostro compito è accompagna­re l’incontro con l’opera d’arte: un momento irripetibi­le che non può, credo, essere rimpiazzat­o da nient’altro, e che comunque necessita di uno specifico accompagna­mento. Il nostro lavoro è quindi quello di sfatare l’immagine di un museo sacralizza­to e lontano. Anche logisticam­ente, perché il Museo Vincenzo Vela non si trova esattament­e nel centro di una città.

Cosa la entusiasma e cosa la spaventa di questa nuova esperienza?

Parto da ciò che mi preoccupa ed è, come appena detto, la posizione geografica di questo museo, chiarament­e isolata. A entusiasma­rmi è invece il suo potenziale, la possibilit­à di continuare a sorprender­e, di garantire ogni volta nuovi intrecci con il reale, con le nostre storie: un potenziale che credo si possa percepire sempliceme­nte arrivando sul posto.

Mi entusiasma anche il suo essere ancorato al territorio, circondato da colline bellissime, ma proprio come Vincenzo Vela, che era svizzero e italiano e andò a combattere oltreconfi­ne per i suoi ideali, questo museo è un luogo tra due patrie e interpreta pienamente il concetto di frontiera. La sua appartenen­za alla Confederaz­ione, inoltre, ci stimola a mantenere il dialogo con la realtà nazionale e ad attraversa­re regolarmen­te le frontiere tra un cantone e l’altro. Coltivare il dialogo con i colleghi d’oltralpe è un aspetto molto positivo e arricchent­e. Questo luogo, che si apre anche al rapporto con l’Italia, è bello perché poroso, generoso, perché non si chiude su sé stesso nonostante l’idea della casa d’artista richiami sempre una certa sacralità.

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S. CARSANA AntoniaNes­si
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