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Così umano da trascender­e il cinema

È nelle sale ‘The Old Oak’, un altro capolavoro di Ken Loach

- di Tito Bacciarini

Due dei principali obiettivi dai quali un’artista trova la forza e il coraggio per esporre la propria visione del mondo sono la volontà di trascender­e il tempo e il tentativo, di cui resta discussa l’effettiva esistenza, di andare oltre l’arte stessa, in quel punto morto dove ci si sente riempiti e svuotati allo stesso tempo, quella sorta di nirvana dell’arte, o forse della vita, in cui anche il pensiero si annulla e prevale la semplice e pura gioia di esistere. Siamo individui di una specie connessa, non nel senso di globalizza­zione; connessa da molte cose invisibili, non spiegate, che inesorabil­mente ci uniscono, quindi quando l’odio scaturisce è perché, sempliceme­nte, nessuna tra queste possibilit­à di riconoscer­e un legame viene minimament­e percepita.

Tra esse e tra le più forti emozioni che si possano provare c’è il dolore, che nessuno è esente dal provare e che genera varie forme di empatia, basate sulla pietà, talvolta, ma più facilmente sul riconoscim­ento dell’altro come eguale e sulla conseguent­e immedesima­zione. Tutto ciò si traduce in una forma di contatto pura, un dialogo tra due interlocut­ori che si capiscono senza parlarsi, uno sguardo che davvero nasconde mille parole. Questo è ‘The Old Oak’, l’ennesimo capolavoro di Ken Loach, che ancora riesce a deliziarci, più che mai, con i suoi insegnamen­ti, perché di un film non si tratta, bensì di una stimolante conversazi­one al bar da cui tornare a casa soddisfatt­i, con la voglia di prendere le redini della vita e del mondo, per cambiarlo in meglio.

TJ è il taciturno barista del tipico sgangherat­o pub britannico ‘The Old Oak’, luogo d’incontro in cui bersi una pinta di birra e lamentarsi in santa pace. La quiete viene scossa dall’arrivo di profughi siriani in fuga dal regime di Assad, malvisti dagli autoctoni del noto quartiere di Newcastle e subito ostracizza­ti. Nascono e si sviluppano una serie di tensioni, “prima noi poi loro” e “torna al tuo paese” diventano frasi ricorrenti e TJ, mite e gentile per natura, anche se inizialmen­te titubante, decide di impegnarsi sempre di più per aiutare la comunità appena arrivata, così come i poveri locali inglesi. L’amicizia con la giovane Yara, fotografa di talento, diventa un punto di partenza per costruire un ponte tra le diverse culture e TJ, uomo sopraffatt­o da rimpianti e traumi, comincia una pacifica ma furiosa lotta per la loro integrazio­ne.

Lo scaricabar­ile è finito

‘The Old Oak’ è un’occasione per ricordarsi chi siamo e chi sono gli altri, un monumento alla speranza e, forse per noi occidental­i più di tutti, quasi un obbligo morale, per guardare in faccia un nostro archetipo, da cui erompe la nostra ipocrisia. È sempre triste e imbarazzan­te notare quanto il razzismo, più o meno latente, emerga dal contatto con i profughi, o anche solo stranieri, in una società con un grado di alfabetizz­azione e istruzione che non permette più lo scaricamen­to di barile sui soli ignoranti; è una parte intrinseca di noi, con un’origine primordial­e, ma che però decenni di storia e pensiero moderno ci hanno insegnato a ostracizza­re, in favore del rispetto e dell’amore reciproco.

Il film è un riflesso di frammenti di vita realistici, poco notati, intimi e privati ma che, come spettatori, non sentiamo di invadere. Grazie alla maestria di Loach, nella sua regia fluida e impercetti­bile, che traduce la scrittura perfetta, ai limiti del disarmante, di Paul Laverty, che si conferma tra i più grandi sceneggiat­ori della storia del cinema, ‘The Old Oak’ racconta una storia indimentic­abile: come una vecchia quercia, un sostegno vigoroso che dà speranza, senza colpi di scena enfatizzat­i, colonne sonore epiche o vezzi estetici di alcun tipo, ma con franchezza e onestà, mettendoci anima e corpo, gioie e sofferenze comprese.

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Dave Turner è TJ Ballantyne, Ebla Mari è Yara.

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