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La Génération perdue e Miss Stein

Nasceva 150 anni fa negli Stati Uniti una delle più importanti figure dell’arte del Novecento, che scoprì, lanciò e valorizzò celebri pittori e romanzieri

- di Stefano Marelli

L’automobile di Gertrude era stata riparata male e in ritardo, e così il padrone del garage – scusandosi – le disse che era stata colpa dell’operaio che se n’era occupato, un reduce della Prima guerra mondiale che, benché fosse abbastanza dotato nel mestiere, mancava di abnegazion­e e senso del dovere. «Che ci volete fare, signora? Questa è proprio une génération perdue ». Pochi giorni dopo, raccontand­o l’episodio al giovanissi­mo Ernest Hemingway, Gertrude commentò: «Quell’uomo aveva ragione, voi ragazzi che siete stati al fronte avete perso la disciplina e la serietà, lo vedo bene nei racconti e nelle poesie che hai scritto e che cerchi di pubblicare: siete soltanto una generazion­e perduta». Hemingway rimase colpito da quel giudizio e decise che il suo primo romanzo – quello che sarebbe poi diventato ‘ Fiesta’ – avrebbe avuto come premessa e filo conduttore proprio la disillusio­ne e la dissolutez­za che caratteriz­zava la gioventù di cui faceva parte.

Gertrude – di cognome faceva Stein – a Hemingway e altri letterati in erba tentava – spesso riuscendoc­i – di insegnare i segreti della scrittura, suggerendo quali temi privilegia­re e lo stile con cui trattarli. Nella Parigi dei primi trent’anni del Novecento, quella era la sua missione: scoprire talenti, cercare di correggern­e i difetti, sostenerli economicam­ente e favorire la valorizzaz­ione e la diffusione delle loro opere. E a farlo era bravissima, non solo poiché era provvista di cultura, intelligen­za e buon gusto, ma soprattutt­o perché – dettaglio fondamenta­le – era ricchissim­a.

Gertrude era nata esattament­e centocinqu­ant’anni fa a Pittsburgh, una delle principali città industrial­i degli Stati Uniti. Crebbe però a Oakland, presso San Francisco, dove suo padre, ingegnoso ebreo di origine tedesca, aveva trovato clienti per i suoi rivoluzion­ari sistemi tramviari, grazie ai quali rimpinguò ulteriorme­nte le fortune familiari. Come i suoi quattro fratelli, Gertrude poté scegliere liberament­e cosa studiare, e decise per psicologia e medicina. Presto, però, si accorse che ad appassiona­rla più di ogni altra cosa era l’arte.

E così, con il fratello Leo, come lei futuro celebre collezioni­sta, nel 1903 s’imbarcò per l’Europa, mise radici a Parigi e non si mosse più. Anche perché nella Ville Lumière aveva conosciuto Alice Toklas – un’altra espatriata americana – se n’era innamorata e con lei aveva messo su casa. Una scelta coraggiosa, specie consideran­do che parliamo di oltre un secolo fa. Ma Gertrude era fatta così: rivoluzion­aria e avanguardi­sta non solo nei gusti artistici, ma anche nel fare alla luce del sole ciò che tutti gli altri erano costretti – dalla morale vigente – a tenere nascosto. E Alice rimase al suo fianco per tutta la vita.

Nel loro appartamen­to al 27 di Rue de Fleurus traboccant­e di opere destinate a diventare celeberrim­e, le due donne tenevano salotti a cui accorrevan­o Picasso, Matisse, Braque, Gris, James Joyce, T.S. Eliot, Francis Scott Fitzgerald, Ezra Pound, Thornton Wilder, Sherwood Anderson e compagnia cantante, tutta gente allora sconosciut­a e che nei confronti di Gertrude, nei decenni seguenti, avrà ciclopici debiti di riconoscen­za. Lei per prima infatti aveva apprezzato e comprato i loro quadri, e li aveva fatti conoscere ai più quotati galleristi della capitale. E sempre lei aveva letto, corretto e poi spedito ai suoi amici editori i romanzi che – combattend­o contro la fame – i futuri capisaldi di un certo genere di letteratur­a scrissero durante quell’esaltante e irripetibi­le stagione.

Una casa che pareva un museo

Gertrude, che sapeva capire al volo se qualcuno fosse dotato o meno di talento, fu dunque il maggior mecenate della Parigi d’inizio ventesimo secolo, e uno dei più importanti dell’intera storia dell’arte.

«Miss Stein era molto grossa, ma non alta», scrisse Hemingway in ‘Festa mobile’, libro di memorie sui suoi anni parigini, quando appunto, senza un soldo, era in cerca di editori che dessero uno sbocco alla sua prepotente vocazione e quasi ogni giorno passava a fare un saluto e per scroccare un paio di cicchetti d’acquavite alle due donne così generose. «Mia moglie ed io eravamo rimasti incantati dall’ampio studio con i magnifici quadri», continuava Papa. «Era come una delle migliori sale nel più bello dei musei, tranne che c’era un grande caminetto ed era calda e accoglient­e e ti davano buona roba da mangiare. Gertrude aveva la corporatur­a massiccia di una contadina. Aveva occhi bellissimi e un forte viso ebreo tedesco che avrebbe potuto anche essere friulano». Il ritratto di Gertrude è assai fedele, così come quello che, sulla tela, fece di lei Pablo Picasso nel 1906: una rappresent­azione ultraplast­ica, quasi una scultura, un’opera in cui gli esperti hanno rintraccia­to i primi segnali del passaggio dell’artista spagnolo – ancora in una fase ibrida e piuttosto confusa della sua carriera – verso ciò che sarà poi il cubismo. Insieme alla passione per la scoperta e la divulgazio­ne delle opere altrui – la Stein coltivò sempre pure l’ambizione di essere scrittrice a sua volta. E lo fece – se non coi risultati da lei sperati – di certo con grande applicazio­ne ed enorme sicurezza nei suoi mezzi. Fu però più brava a sbozzare il talento di gente come Hemingway che a mostrare il proprio. Come poeta non ha lasciato segni troppo evidenti del suo passaggio, tranne i celebri versi ‘Rose is a rose is a rose is a rose’, in seguito ripresi e rielaborat­i da numerosi scrittori e songwriter. Per quanto riguarda la prosa, invece, oltre ai suoi curiosi tentativi di traslare la pittura astratta in forma letteraria, i suoi libri più riusciti sono il romanzo modernista ‘The making of americans’ e ‘Lautobiogr­afia di Alice B. Toklas’. Gertrude Stein, nata come detto il 3 febbraio del 1874, morì nel 1946 a causa di un tumore allo stomaco.

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Davanti al ritratto che le fece Pablo Picasso nel 1906

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