Il grande rialzo e le aspettative ridimensionate
Il mercato è andato oltre le intenzioni della banca centrale
Il grande rialzo di Wall Street dopo il 27 ottobre è maturato nell’evidenza di un’inflazione in forte calo e nel corretto convincimento che la Fed avrebbe presto tagliato i tassi d’interesse. In due mesi il rendimento del Treasury decennale è sceso di ben 120 punti, al 3,8%, e l’indice S&P è cresciuto del 16%: reazioni forse esagerate, poiché il mercato è andato ben al di là delle intenzioni della banca centrale, nel modo e nei tempi in cui dovrebbe procedere la nuova politica monetaria. Mentre la Fed prevedeva tre tagli ai tassi nel corso del 2024, gli operatori hanno scommesso su sei, il primo dei quali a marzo. Ma, a metà gennaio, quando la borsa cominciava a inanellare nuovi record, le aspettative s’erano già ridimensionate: il primo taglio si sarebbe visto solo a maggio, ripetuto appena 4 volte nel corso dell’anno.
Il rimbalzo
Così il rendimento del Treasury è risalito di 38 centesimi, al massimo del 4,18% il 24 gennaio, ma la borsa ha proseguito la corsa toccando nuovi record e il balzo dal minimo di ottobre si misurava nel 20%: per gli amanti della statistica uno dei più grandi rialzi della storia maturati in tre mesi. Se calano i rendimenti obbligazionari, le azioni giustamente crescono, ma se aumentano la borsa sale ugualmente, ed è difficile comprendere se sia l’euforia a sostenerla o qualche fattore tecnico. Di certo non dovrebbero essere i fondamentali, visto che gli indicatori a maggior valenza previsionale (Ism) segnalano semmai una minor crescita. In ogni caso, il mese di gennaio, che pareva chiudersi con guadagni superiori al 3%, è finito con un più modesto rialzo dell’1,3%: una grande delusione per gli amanti della statistica perché, se la crescita avesse superato il 2%, l’anno sarebbe finito con guadagni del 13,5%. Così suggerirebbero i numeri dal 1953 in poi.
Ma la statistica è storia e le variabili del presente possono essere di differente natura. Infatti, raramente Wall Street è stata trascinata dalla forte ascesa di una manciata di titoli. I Magnifici sette (Nvidia, Tesla, Meta, Apple, Amazon, Microsoft e Alphabet) pesano oggi il 30% dell’indice S&P 500; sette anni fa i maggiori 5 titoli (Faang) contavano a malapena l’8%. Lo scorso anno iMag7 sono cresciuti del 68%, gli altri 493 titoli poco più dell’11%, meno della metà dell’indice S&P 500 (24,2%).
Tra il 4 gennaio e il massimo del 28 gennaio, i primi hanno guadagnato il 9,9%, il doppio dell’indice, cosicché ai restanti 493 titoli è rimasta una crescita zero. E il divario sarebbe ben più ampio se si escludesse Tesla, crollata del 25%. Ancor più interessante sarebbe capire chi ha comprato negli ultimi tre mesi e parrebbe siano stati un po’ tutti.
Se si prendono per buoni i dati del sondaggio BofA di gennaio, i grandi investitori hanno fatto la parte dei leoni, accrescendo di 6 punti (al 15%) il sovrappeso sulle azioni americane: cosicché andare “lunghi” sui titoli dei Magnifici 7, ossia comprarli a man bassa, è diventato l’esercizio più diffuso, come nell’estate 2020, nel pieno dell’euforia del dopo Covid. Ma, dopo un rialzo dell’indice del 20% in tre mesi (e del 27% per i mag7), e con valutazioni ben più alte della media storica (p/e dell’indice S&P di 22,5 e a 20,3 sugli utili sperati nel 2024) e quasi stratosferiche per i Magnifici 7 (p/e 48), non c’è molta razionalità in questo comportamento da gregge, poco consono ai meno conformisti gestori di hedge fund. Jpm avverte che le attuali condizioni del mercato ricordano parecchio quelle della bolla speculativa del 2000, e persino gli ottimisti di Goldman Sachs osservano che le azioni «sono prezzate come se tutto fosse perfetto». A sentire questi ultimi, gli hedge fund avrebbero comprato parecchio nelle ultime settimane per le «migliorate condizioni economiche» e SocGen calcola che le loro posizioni sul Nasdaq siano le più “lunghe” (al rialzo) da 7 anni.
Secondo altri, gli hedge fund starebbero semplicemente comprando i titoli venduti allo scoperto e ne avrebbero avuto prova il 29 gennaio, quando, con il Nasdaq in crescita dell’1,1%, le azioni con più “scoperto” sono volate del 3,3%. La confusione è massima se si ascoltano altri operatori di Goldman i quali, osservando i flussi, sostengono che gli hedge fund sarebbero stati nel complesso venditori a gennaio. Probabilmente ha ragione Mike Wilson di Morgan Stanley nell’affermare che in questo momento «nessuno capisce nulla» e tra i clienti della banca d’investimento c’è grande incertezza sul futuro. Di certo c’è molto nervosismo e lo s’è visto nell’ultima sessione del mese con l’S&P e il Nasdaq in caduta dell’1,61% e del 2,23%, appena dopo la riunione di un Fomc giudicato hawkish: “aggressivo”, solo perché la Fed avrebbe allontanato la prospettiva di un primo taglio dei tassi a marzo. Ma, aggressivo Powell è parso solo agli operatori dell’azionario, poiché, dopo le sue parole, il rendimento dei Treasury è sceso al 3,9% e le scommesse sui Fed Fund lasciano intendere che sei tagli dei tassi entro dicembre sono più probabili (al 70%) di quanto si credesse la settimana prima (57%).
L’ossessione
Nello scenario pressoché perfetto dipinto dagli operatori, senza rischi, se non quelli assai vaghi della geopolitica, il minimo intoppo può diventare fonte d’inquietudine, come è stato con le difficoltà segnalate dalla banca regionale di New York o dalle stime di crescita di un’inezia ridotte di Google e Microsoft. Gli operatori, anziché farsi ossessionare dai tassi d’interesse, comunque in calo nel 2024, dovrebbero concentrarsi un po’ più sull’economia, visto che l’attività manifatturiera (Ism) è in contrazione da 15 mesi. E proprio oggi, con la pubblicazione dell’Ism servizi, avremo la prova se un settore, che vale tre quarti del Pil americano, sia ancora in buona salute.