Maison e botteghe, la fabbrica del lusso mondiale
Nell’intreccio Italia-Francia sempre più trame finanziarie
Un entrepreneur della haute couture invita in negozio i potenziali clienti e investitori; un imprenditore italiano dell’alta moda propone loro una visita allo stabilimento. Due stili industriali totalmente diversi: marchio e produzione, maison globali e botteghe sartoriali, Francia e Italia. L’una è sede di una manciata di colossi dell’alta gamma noti al grande pubblico, l’altra è casa di una miriade di piccole e medie aziende fornitrici rinomate fra gli addetti ai lavori. È, insomma, la “fabbrica” del lusso mondiale. I due fili sono però da sempre inestricabilmente intrecciati: a seconda delle stime, fra il 60 e l’80% dell’alta moda è frutto del lavoro della manifattura e degli artigiani italiani che forniscono alle multinazionali — non soltanto francesi — capi, accessori, gioielli, chiusure di borse, filati pregiati di cachemire, venduti in tutto il mondo. Basti pensare che è made in Italy oltre la metà dei ricavi di Kering, il gruppo con sede a Parigi che, dopo una lunga campagna acquisti lungo lo Stivale, è oggi proprietario di Gucci, Bottega Veneta, Brioni, Pomellato e DoDo, e Valentino.
I numeri
Nato come industriale, ossia da un rapporto fornitore-cliente, l’intreccio della filiera italiana con i grandi marchi francesi si sta tuttavia arricchendo sempre più spesso di trame anche finanziarie.
Secondo un’analisi di Kpmg per L’Economia, su 315 acquisizioni concluse fra il 2018 e il 2023 nell’industria italiana del lusso, oltre la metà (166, il 55%) ha riguardato aziende attive a vario titolo nella filiera: fornitori di materie prime pregiate (lane, tessuti, filati, pelli), contoterzisti, produttori di accessori. È una tendenza passata perlopiù sottotraccia perché i nomi delle piccole e medie imprese comprate non colpiscono quanto i brand luccicanti di Bulgari, Gucci o Loro Piana. Né, singolarmente prese, le somme in gioco destano la sensazione suscitata dagli 1,7 miliardi pagati da Kering per comprare il 30% di Valentino dal fondo qatarino Mayhoola.
Eppure, viste nel loro insieme, le tante piccole operazioni di shopping a monte della filiera della moda italiana sono altrettanto significative dei pochi mega-acquisti conclusi a valle, fra le grandi aziende. I primi a risalire gli anelli della catena produttiva sono stati — ça va sans dire — i grandi conglomerati del lusso francesi. In tempi non sospetti, per esempio, Chanel ha fatto incetta di pellettieri (Conceria Samanta, Renato Corti, Mabi International e Gaiera Giovanni), per poi espandersi nella maglieria con l’acquisto di Paima, nei jeans e nell’abbigliamento in denim con Fashion Art e, infine, nei filati per cashmere e lane pregiate con Lanificio Cariaggi. Lvmh ha persino creato due divisioni apposite, Metiers d’Arts e Manufactures Dior, per assicurarsi una presa salda sulla filiera. Il gigante fondato da Bernard Arnault ha investito in Masoni industria conciaria, Conceria Nuti Ivo e ha messo radici industriali e finanziarie nel distretto calzaturiero pugliese, diventando socio di Manifattura Salento e Aeffe Lux. «È la conferma che la Penisola gioca il ruolo di grande serbatoio manufatturiero per il lusso mondiale. Questa è la vera forza del made in Italy», dice Max Fiani, il partner Kpmg che ha curato l’analisi.
Ma c’è un rischio per le aziende italiane di essere tagliate fuori dall’indotto? In genere, le grandi multinazionali lasciano l’azienda nella quale investono libera di continuare a lavorare per i concorrenti, in modo da preservare la sua spinta creativa. Comunque, in questi anni, i gruppi italiani non sono stati certo a guardare. Il gruppo Prada di Patrizio Bertelli e Miuccia Prada ha acquistato a fine 2022 il 43,65% di Conceria Superior, azienda di Santa Croce sull’Arno (Pisa) uno dei distretti conciari più grandi d’Europa, fornitrice da oltre 60 anni delle principali maison del lusso, tra cui la stessa Prada. E a riprova che tra grandi imprese si può collaborare, sempre Prada e Zegna hanno investito nella Luigi Fedeli e figlio, rilevando nel 2023 il 15% a testa dello storico maglificio monzese, specializzato nei filati di pregio. Una mossa che segue quella del 2021 quando hanno acquistato congiuntamente la maggioranza della Filati Biagioli Modesto. Il filo conduttore di tutte queste operazioni è supportare l’artigianalità e le competenze del fornitore e, al contempo, fornirgli spalle più forti per gli investimenti, anzitutto sulla riduzione delle emissioni.
I nuovi attori
Accanto alle storiche case di moda, nel frattempo, sul mercato sono entrati nuovi attori, nati con il precipuo scopo di rammendare il frammentato tessuto delle Pmi italiane. Il caso più rilevante è quello di Florence, conglomerato dedicato agli investimenti nelle aziende che lavorano per i big.
Ha costruito in pochi anni il primo polo produttivo made in Italy per i brand del lusso. Fattura circa 600 milioni e ha aggregato una trentina di Pmi che lavorano per i grandi nomi, come Kering a Lvmh e Armani. E ora intende accelerare nella campagna acquisti, anche grazie alla spinta del fondo Permira che ha rilevato il controllo di Florence in autunno. «La filiera, ancora molto frammentata, è un patrimonio in gran parte italiano», spiega Francesco Pascalizi, responsabile di Permira in Italia. «Florence, con il suo modello di piattaforma industriale al servizio dei brand di alta gamma, contribuisce a valorizzare attraverso investimenti in innovazione, formazione e sostenibilità in partnership con gli imprenditori che entrano a far parte del gruppo». Nella creazione di poli si cimenta anche Minervahub, che fa capo al 75% alla San Quirico (famiglie Garrone e Mondini) e per il restante 25% a Xenon. Dalla fondazione nel 2022, ha unito il «saper fare» di 17 Pmi che servono oltre mille clienti producendo ogni anno 227 milioni di accessori e occupando 1000 persone. «Mettere sotto lo stesso cappello queste realtà crea molto valore, sono aziende simili che lavorano lungo tutta la catena del valore — dice Fiani —. Anche per i big che a questo punto si confrontano con un solo interlocutore. A loro volta queste piccole aziende possono accelerare sugli investimenti nel digitale e nella sostenibilità».