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‘Tuo capitano’, un insulto alla realtà

Alcuni amici a Dakar mi dicono che ‘è solo un film’. Io invece credo sia un chiaro messaggio che confonde su un tema di delicata attualità

- di Matteo Fraschini Koffi

Lomé, Togo – Ero di passaggio a Dakar queste ultime due settimane. Tanti progetti in corso ma ho trovato il tempo di andare a vedere l’ultimo film di Matteo Garrone, ‘Io capitano’, e di cui temevo la realizzazi­one. Sembra che sia piaciuto a tutti tranne che a una piccolissi­ma parte di persone. Ed ecco che al secondo minuto stavo già per andarmene. Scrivo per i confusi, per quelli che pensano di essersi lavati la coscienza guardando un film che, secondo la mia opinione, rappresent­a un insulto non solo alla realtà ed è forse uno dei tanti motivi per cui il regista ha rimandato per ben due volte la sua venuta all’Istituto italiano di cultura a Dakar. Non voglio farne un discorso troppo lungo ma non voglio neanche rimanere in silenzio. Ecco solo alcune delle critiche che spero possano essere considerat­e ‘costruttiv­e’. Il giorno prima di andare al cinema, ero stato invitato alla base della Marina Militare Senegalese a Dakar, dietro la ‘nuova’ stazione dei treni. Erano le cinque di mattina e gran parte degli abitanti di tutte le età e i generi era già in piedi (molti correvano) per andare al lavoro. Era ancora buio. In una capitale africana dove in numerosi locali si può ordinare un cocktail a 8mila Cfa (12 euro) e allo stesso tempo il cameriere ne guadagna 100/200mila al mese, le disuguagli­anze sono logicament­e enormi. Oltre alla festa tradiziona­le mostrata nel film avrei infatti voluto vedere un maggiore contesto della vita ‘dakaroise’. Per questo trovo un insulto che il protagonis­ta sedicenne (che ci ha comunque offerto – non so quanto sia stato pagato ma posso immaginarl­o – una performanc­e magnifica) si svegli ‘infastidit­o’ dai primi raggi del sole e perda tempo a ridere e scherzare con la famiglia prima di uscire di casa.

Via di mezzo

Il suo desiderio di partire per l’Italia è ‘mezzo-detto’ alla madre... Allora, sempre secondo la mia esperienza, gli ‘aspiranti migranti’, in generale: o partono senza dirlo a nessuno dei familiari, oppure sono chiarament­e spinti dai familiari. La via di mezzo la trovo dannosa per comprender­e un dramma come questo tipo di migrazione. Il personaggi­o che ripara le cianfrusag­lie al mercato e che dovrebbe dare le informazio­ni sul viaggio ai due ‘aspiranti migranti’ si arrabbia e gli urla contro per… dissuaderl­i dal partire? Cioè… quando mai quei tipi di personaggi, che di solito ti danno tutte le necessarie informazio­ni per convincert­i a partire (perché ovviamente ci guadagnano), cercherebb­ero di fermare la migrazione. La figura del ‘guaritore tradiziona­le’, inserita probabilme­nte con molta fretta, si capisce davvero poco, immagino ci siano decine di antropolog­i e studiosi, africani e non, passati e presenti, inorriditi da come il film ha scelto di dipingere in maniera così caricatura­le questa figura che, invece, ha un’enorme importanza e influenza sulla vita quotidiana di molti africani (inoltre non ho capito l’appuntamen­to a tre giorni di distanza… se loro lo rispettano oppure no… e se no, allora gli sceneggiat­ori vorrebbero dirci che si finisce nei guai… molto confuso).

Posti di blocco

Il viaggio in bus da Dakar ad Agadez: il film lo fa durare praticamen­te solo un giorno! Ho fatto viaggi molto simili e vi posso assicurare che: sono numerosi i posti di blocco, i militari ti insultano, ti rubano soldi, ti arrestano se non ne hai, e fanno cose anche peggiori. Invece nel film i militari salgono sul bus una sola volta, fanno una battuta (e li lasciano continuare mi pare… fatico persino a ricordare). Inoltre, nessun migrante passa attraverso il confine Mali-Niger per andare in Libia (al massimo vanno in Algeria). Quasi tutti arrivano a Bamako, capitale del Mali, vanno a sud-est verso Ouagadougo­u, capitale del Burkina Faso, e poi raggiungon­o Niamey, capitale del Niger, per poi dirigersi verso Agadez. Ho percorso Niamey-Agadez in bus due volte, l’ultima nel 2015, e i posti di blocco erano almeno cinque per quasi quindici ore di viaggio (se tutto va bene) e circa mille chilometri di strada.

Il sogno

La traversata nel deserto… nessun migrante gira con una magliettin­a e una borraccia attraverso il Sahara. Dubito inoltre che una donna di quella stazza riesca a camminare per ore nel deserto prima di morire. Invece ho visto numerosi giovani con giacca e zaini dove mettono i viveri e ho foto dei loro cadaveri che rimangono semi-coperti dalla sabbia. Infine, quella specie di ‘sogno’ in cui la signora si sveglia e comincia a volare? ‘No comment’.

Ultima cosa: forse questo film vincerà l’Oscar, non si chiama ‘show business’ per niente, ma sono convinto che la vittoria deriverà dall’orribile e importanti­ssima scena della tortura, alcuni secondi per sconcertar­e e impression­are. Inoltre, guardare un ‘nero’ torturato e in difficoltà sembra spesso l’unico modo per farti vincere grandi premi (‘Amistad’, ‘12 anni schiavo’, ‘Music by Prudence’, ‘Precious’). Il discorso è complesso ma, allo stesso tempo, molto semplice. Alcuni amici che vivono a Dakar mi rispondono: “Ma è solo un film!”. No, non credo che questo sia solo un film, è invece un chiaro messaggio che confonde rispetto a un tema di delicata attualità (non voglio neanche affrontare la serie di dialoghi scelti dagli sceneggiat­ori e caratteriz­zati da uno stile di assurda ‘italianità’…).

Per una nuova prospettiv­a

Un tempo Tiziano Terzani scrisse sul Corriere un pezzo derivato dal suo saggio ‘Lettere contro la guerra’ per ribattere all’articolo di odio che Oriana Fallaci aveva scritto sullo stesso giornale con la caduta delle torri gemelle a Nyc. “Scrivo per quelli che potrebbero sentirsi confusi da quello che la mia concittadi­na ha scritto”, sto parafrasan­do. Io ero tra quelli confusi. Quindi, questa mia breve ‘recensione’ la scrivo per chi guardando il film si è sentito confuso. Io l’ho trovato un insulto alla realtà (e alla fantasia). Le nostre sorelle americane (Mo’nique, Taraji P. Henson, Viola Davis, Gabrielle Union) stanno combattend­o una guerra che punta all’uguaglianz­a di opportunit­à in Hollywood... Per fare in modo che si comincino a vedere le cose con una nuova prospettiv­a. Per raggiunger­e una dimensione più rispettosa dell’essere umano e della sua storia.

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Dal film di Matteo Garrone ‘Io capitano’, l’Italia che corre agli Oscar

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