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I mille rischi delle partite di calcio extra muros

- di Stefano Marelli

Nelle scorse settimane non sono mancate le polemiche per la moda, per altro non certo nuovissima, che vede le squadre dei campionati di calcio più importanti andare a giocare amichevoli di lusso o addirittur­a manifestaz­ioni ufficiali – come le Supercoppe nazionali – in Paesi lontani disposti a pagare cifre non banali per offrire al proprio pubblico uno spettacolo al quale non è abituato.

Si tratta di un’abitudine che, ovviamente, agli appassiona­ti occidental­i non piace troppo: nessuno infatti è felice nel vedersi privato della possibilit­à di recarsi allo stadio per seguire i propri beniamini. E contenti non sono nemmeno giocatori e allenatori, che si ritrovano costretti a effettuare lunghe trasferte che comportano fra l’altro jetlag e fastidiosi sbalzi di temperatur­a.

Da non trascurare sono pure i costumi in uso in certe nazioni, che non soltanto sono spesso diversi da quelli che conosciamo, ma in qualche caso risultano addirittur­a incompatib­ili con le nostre abitudini. Basti pensare a quanto accaduto in Arabia Saudita, dove in occasione della Supercoppa di Spagna è stato clamorosam­ente fischiato il minuto di silenzio in onore di Franz Beckenbaue­r, appena scomparso. Quando gli iberici, scioccati, hanno chiesto spiegazion­i di una tale mancanza di rispetto, si sono sentiti rispondere che nella cultura araba non è col silenzio che si onorano i defunti. Legittimo, ma forse sarebbe stato meglio informarsi (o avvisare) prima, per evitare da una parte l’indignazio­ne e – dall’altra – la pessima figura.

Una sola cosa sarebbe stata ancor peggiore di quello spiacevole incidente: la recidiva. Ma pochi giorni dopo i vertici del calcio italiano – che evidenteme­nte non leggono i giornali spagnoli – hanno pensato bene di riproporre ai tifosi sauditi un bel minuto di silenzio in memoria di Gigi Riva, al quale dagli spalti hanno risposto con altri vergognosi fischi. Cosa credevano? Che il modo di trattare i morti in una certa cultura potesse stravolger­si come per magia solo per compiacere la memoria di qualcuno che, fra l’altro, laggiù nessuno ha mai nemmeno sentito nominare?

Gli unici a fregarsi le mani dopo queste partite extra muros, quindi, sono le leghe – e di rimando i club – che da simili estemporan­ee scampagnat­e ricavano come detto svanziche in gran copia, indispensa­bili per poter sostenere costi di gestione sempre più alti a causa, soprattutt­o, della correspons­ione ai giocatori di salari sproposita­ti che né i contratti televisivi né tantomeno gli introiti del botteghino riescono più a coprire.

Sul successo di tali operazioni, inutile dire che qualche dubbio sorge: la gente in Estremo Oriente – come pure nei Paesi del Golfo – non sempre riempie gli impianti come si sarebbe portati a credere. Anzi, in certi casi ampi settori degli stadi rimangono desolatame­nte vuoti, a conferma che – per quanto le autorità locali insistano a mettere in piedi queste rappresent­azioni – il pallone a certe latitudini piace proprio poco. Se il fegato ti ripugna – tanto per intenderci – non è certo facendone scorpaccia­te che comincerai a trovarlo appetitoso.

Per far cassa, un paio di giorni fa, ha fatto scalo a Hong Kong pure l’Inter di Miami che – se non avesse di recente ingaggiato Lionel Messi – varrebbe al massimo una squadra della nostra Promotion League. Tutti gli spettatori erano lì naturalmen­te soltanto per vedere giocare la Pulce, e per farlo hanno sganciato da 125 a 650 dollari a cranio. Gli accordi, parrebbe, erano che l’argentino stesse in campo almeno 45 minuti, ma alla fine – a causa di un problema muscolare – non ha giocato neanche un secondo. La gente l’ha presa malissimo: lo spice boy David Beckham – copropriet­ario della franchigia della Florida – è stato insultato come nemmeno sua moglie si è mai permessa di fare. Il pubblico ora pretende non senza tutti i torti di essere rimborsato e il governo dell’isola ha già fatto sapere agli organizzat­ori – che stanno flirtando con la bancarotta – di aver bloccato i due milioni di dollari di finanziame­nti pubblici che avevano loro promesso.

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KEYSTONE Non si è nemmeno tolto la giacchetta

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