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Carlo Goldoni e l’opera

I suoi testi cambiarono non solo il teatro ma portarono a una non meno importante svolta nell’ambito dell’evoluzione dell’opera comica italiana

- di Carlo Piccardi

A un’ottantina assommano i libretti d’opera di Carlo Goldoni, scritti per vari compositor­i (da Vivaldi a Haydn, da Galuppi a Mozart). Se importante fu la riforma a cui sottopose il teatro, non meno importante si dimostra la svolta che i suoi testi per musica rappresent­ano nell’ambito dell’evoluzione dell’opera comica italiana. Benché a tale ruolo fosse in un certo senso trascinato per necessità (nelle sue ‘Memorie’ rivela come i profitti della commedia fossero insignific­anti in Italia e come non ci fosse che l’opera teatrale a permettere di guadagnare), vi troviamo lo stesso impegno e la stessa direzione di ricerca riscontrab­ili nelle sue commedie. La fortuna dell’intermezzo napoletano dominante nei primi decenni del Settecento faceva infatti da pendant alla commedia dell’arte nel suo assetto primitivo. I caratteri vi corrispond­evano a ‘ maschere’, almeno nel senso di tratti unidimensi­onali destinati a incamminar­e l’azione a senso unico. Goldoni coglie nel libretto, destinato a sposarsi con la musica, quegli aspetti di umanizzazi­one dei caratteri che la musica stessa consente in un gioco di ammiccamen­ti, di sottintesi, di ritrosia. Questo intendeva l’Abate Galliani quando nel 1771 scriveva a Madame D’Epinay: “Non illudetevi, l’opera napoletana non arriverà mai in Francia. Voi forse potrete amare le opere comiche italiane, come ‘La buona figliola’, ma non quelle napoletane”. Tratta dal fortunato romanzo di Samuel Richardson, ‘Pamela or Virtue Rewarded’, diventata anche personaggi­o emblematic­o del suo teatro (‘Pamela nubile’, ‘Pamela maritata’), ‘La buona figliola’ è uno dei libretti chiave del secolo, scritto nel 1756 per la musica di Egidio Romualdo Duni. Per fare colpo dovette però attendere quattro anni, quando Niccolò Piccinni ne ricavò un’opera che inaugurò in musica il filone larmoyant. Era la scoperta dei piccoli sentimenti, che si contrappon­eva alle grandi passioni dell’opera seria, a tracciare un confine tra un’aristocraz­ia al tramonto e una borghesia emergente che ancorava il suo senso di realtà alla quotidiani­tà del sentire, a una visione domestica della vita. Cecchina, la “buona figliola”, riscattata alla fine dell’opera per il fatto di scoprirsi figlia di gente nobile, rimane legata alla vicenda per la sua condizione di serva, valorizzat­a nell’umanità del sentimento, nella finezza e nella profondità dei propositi.

D’altra parte, dalla sfaccettat­ura del sentimento che non si presenta più emblematic­amente come caratteriz­zazione del ruolo ma che si articola in espression­i secondarie financo contrappos­te, nasce tra i personaggi un intreccio di relazioni e conseguent­e un moto che sta alla base della dinamica musicale che porterà ai grandi finali mozartiani. In altre parole, ‘Le nozze di Figaro’ di Mozart non sono spiegabili senza le virtualità del libretto di Lorenzo Da Ponte, mentre Lorenzo Da Ponte non è spiegabile senza l’esempio che all’azione e al linguaggio dei suoi personaggi fornirono i libretti di Goldoni. L’importanza che ebbe per Goldoni l’opera in musica è testimonia­ta dalla commedia ‘L’impresario delle Smirne’ (1760), in cui sono messe in scena le manie, gli spropositi, le illusioni dei protagonis­ti del macchinoso apparato di produzione. Ecco come nella relativa prefazione è descritta la figura dell’impresario: “Io ho conosciuto in Italia molti e molti impresari di opera in musica: ho molto scritto per loro in serio ed in buffo, e posso parlarne con fondamento. Alcuni fanno gl’impresari per una specie di necessità, e sono quelli che possedendo qualche teatro, per profittare della rendita considerab­ile di un tal fondo, fanno andare l’impresa per loro conto, e sovente vi rimettono, oltre il profitto de’ palchetti qualch’altra parte del patrimonio. Altri lo fanno per un’inclinazio­n generosa di divertir se stessi ed il pubblico, e questi ci rimettono più degli altri. Vi sono di quelli che si lasciano indurre a farlo dalle lusinghe di un’amabile virtuosa, la quale, non trovando chi voglia darle il posto di prima donna, induce l’amico ed il protettore a prendere sopra di sé l’impresa di un’opera, e lo sagrifica alla sua vanità ed al suo interesse. Molti lo fanno, sedotti dalla lusinga dell’utile, alla persuasion­e di quelli che fanno i sensali di tal genere di marcanzia, e danno a loro ad intendere, che non vi è danaro meglio investito, in tempo che non vi è danaro più sicurament­e perduto. Altri finalmente lo fanno per disperazio­ne, non avendo niente da perdere, e colla speranza di guadagnare, e se le cose van male, s’impossessa­no della cassetta, piantano l’impresa, e lasciano i musici nell’imbarazzo. Tutte queste differenti qualità d’impresari convengono in una cosa sola: grandi e piccoli, ricchi e poveri, generosi o venali, tutti accordano, e provano e si lamentano, che un’impresa d’opera in musica è il più grande, il più fastidioso e il più pericoloso degli imbarazzi”.

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Alessandro Longhi, ‘Ritratto di Carlo Goldoni’

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