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La regola del cinque

- di Beppe Donadio, inviato a Sanremo

“Temevo di ritrovarmi superato da un momento all’altro, di essere costretto a inseguire le tendenze, proprio io che avevo anticipato e lanciato tante mode”. Nel settembre di quasi 65 anni fa, Renato Carosone annunciava l’addio alle scene. Dopo avere creato una sua world music tra Napoli e l’Africa dell’Italia espansioni­sta, con Elvis e i cosiddetti ‘urlatori’ già sull’uscio di casa sua, l’autore di ‘Tu vuò fà l’americano’ disse: “Volevo scendere dalla ribalta mentre ero ancora vivo”. Il pianoman sarebbe tornato molto più in là nel tempo, ma la musica non fu più la stessa. “L’ho detto a maggio che sarebbe stato il mio ultimo Sanremo”, ricorda Amadeus nel giorno dopo di un Festival dagli introiti pubblicita­ri multimilio­nari costruiti sulla musica e non sulle lacrime altrui che tanto funzionano, se non per le lacrime prodotte da un’onesta canzone. “Mi devo davvero fermare. Non per fare l’eremita, ma per confrontar­mi con altre sfide, altre scommesse”, dice il direttore artistico della gara canora sulla quale la Rai costruisce il suo palinsesto e le case discografi­che il proprio. Non apriremo qui il capitolo su quando e come ci si debba ritirare, il capitolo dei morti giovani e per questo più eterni dei vivi, dell’andarsene quando si è in vetta per paura di cadere e altri temi che attingono alternativ­amente al coraggio o alla pavidità, alla faccia tosta o alle scelte di vita.

“Ci vogliono cinque anni per fare una buona squadra”, disse una volta il Trap, ma forse era Nils Liedholm. La squadra è quella cosa che sul campo di un qualsiasi sport collettivo tu non sai dove sono io e io non so dove sei tu, ma tu lanciami pure la palla che tanto mi arriverà. È una sorta di regola del cinque anche quella secondo la quale ci vorrebbero cinque anni per fare di una giovane promessa un Ramazzotti (Eros, cantante; per versarsene uno serve meno), una legge non scritta che definisce il tempo di maturazion­e di un artista, un tempo più importante della popolarità e del cantare bene, perché cantare bene è solo una parte dell’essere artista. A cinque anni dal suo primo Festival, Amadeus lascia la manifestaz­ione dopo la sua edizione musicalmen­te più bella. “Niente sarà mai più come prima”, diceva Marco Mengoni il 6 febbraio scorso quando tutto è cominciato. Così sarà, come per ogni festa riuscita bene, per ogni torta uscita bene, per ogni storia d’amore finita bene o male. Tra le voci sui successori di Ama, nei bar di via Matteotti gira anche quella su Fiorella Mannoia, pieni poteri dati dallaRai a una donna di musica.

Per cinque anni Amadeus è stato un Baudo senza essere Baudo, aprendo (conmeno protagonis­mo) alla nuova musica – quella che, piaccia oppure no, ascoltano i nostri/vostri figli– così come Baudo (altri tempi) aprì il tempio della canzonetta al jazz, al demenziale, al teatro canzone e al miglior ‘commercial­e’. Chiunque arriverà dopo Amadeus avrà un compito: garantire che si possa sempre andare a Sanremo per parlare e scrivere di musica e non di casi umani; garantire la sopravvive­nza dell’orchestra, che distingue Sanremo da tutti gli altri festival; garantire quel patrimonio inestimabi­le che è il canzoniere italiano dal quale la serata delle cover attinge, non meno ricco dell’American songbook. Il dopo-Amadeus è importante anche perché un giorno verrà il Festival dell’intelligen­za artificial­e che già produce ritornelli infallibil­i (il ‘già sentito’di cui parlava Morricone, che rende un brano realmente ‘popolare’). E quando il Festival dell’intelligen­za artificial­e arriverà, Geolier che canta in napoletano (da quando è un problema cantare in napoletano?) sarà davvero il minore dei mali.

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