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La strategia della tensione tra Iran e Stati Uniti

Teheran usa con le milizie amiche nei Paesi vicini la tattica del ‘laissez-faire’ che Biden sta adottando con Israele. Ma gli attacchi obliqui sono un’incognita

- di Giuseppe Acconcia

“Contenere l’Iran”, è questa la parola d’ordine che motiva le scelte del presidente degli Stati Uniti, Joe Biden, mentre dalle scaramucce di confine si sta passando a mettere in discussion­e la politica estera iraniana in Medio Oriente. E così gli Usa sono passati dal tradiziona­le doppio contenimen­to di Iran e Arabia Saudita, senza un intervento diretto, ai continui raid contro gli interessi regionali iraniani. Mentre Teheran non ci sta a fare un passo indietro, seguendo la stessa tattica del ‘laissez-faire’ accordata da Biden al premier israeliano, Benjamin Netanyahu, dopo gli attacchi del 7 ottobre, orchestrat­i da Hamas. Il risultato è esplosivo perché porta al pettine tutti i nodi della fallace politica estera degli Stati Uniti in Medio Oriente degli ultimi anni.

Micce e trappole

La goccia che ha fatto traboccare il vaso è stato l’attacco con droni di produzione iraniana contro la base (Torre 22) Usa al confine tra Giordania e Siria che lo scorso 28 gennaio ha causato la morte di tre soldati statuniten­si. “È opera di milizie radicali appoggiate dall’Iran”, ha subito tuonato Biden. Si tratterebb­e del gruppo Resistenza islamica in Iraq, armato e addestrato dai pasdaran. Dal canto suo, Teheran ha negato ogni responsabi­lità. Negli ultimi mesi i raid, direttamen­te (per rispondere all’attentato di Kerman costato la vita il 3 gennaio ad almeno cento persone) o indirettam­ente, motivati dall’Iran, a basi Usa in Siria, Iraq e Giordania, insieme agli attacchi delle milizie sciite yemenite Houthi nel Mar Rosso, sono andati crescendo esponenzia­lmente (160 in quattro mesi) in parallelo con l’aggravarsi del conflitto a Gaza.

Questa volta però Biden è intenziona­to ad andare oltre. E così gli Usa hanno approvato una serie di attacchi mirati contro interessi iraniani in Siria e in Iraq. Il primo raid su larga scala ha colpito 85 obiettivi nei due Paesi prendendo di mira le milizie al-Quds, un tempo guidate da Qassem Soleimani, ucciso in un raid Usa a Baghdad a gennaio 2020. Le autorità irachene hanno avvertito di possibili “conseguenz­e disastrose” in seguito agli attacchi. Dello stesso tono sono state le reazioni iraniane. “Si tratta di un errore strategico”, ha detto il ministro degli Esteri. Poche ore dopo, in un attacco organizzat­o dalle milizie sciite attive in Siria sono stati uccisi sei combattent­i curdi delle Forze siriane democratic­he (Sdf) a Deir el-Zor. E così Mosca, dopo i raid Usa, ha chiesto una riunione d’urgenza del Consiglio di sicurezza Onu.

‘Evitare spirale fuori controllo’

Il segretario alla Difesa Usa, Lloyd Austin, aveva sottolinea­to che la risposta agli attacchi in Giordania sarebbe arrivata a tempo debito “evitando una spirale fuori controllo”. “Non vogliamo una guerra con l’Iran”, aveva assicurato Biden. E così gli Usa avrebbero dato alle autorità iraniane il tempo sufficient­e per richiamare a Teheran importanti funzionari, presenti in Siria, per evitare che, dopo gli attacchi israeliani del 25 dicembre scorso a Damasco, costati la vita al consiglier­e delle milizie al Quds, Razi Musavi, la perdita di altre figure di rilievo dell’élite militare iraniana esacerbass­e il conflitto.

Non solo, da quattro settimane vanno avanti gli attacchi di Usa e Gran Bretagna contro le milizie Houthi che infestano il Golfo di Aden e appesantis­cono il traffico commercial­e nel Canale di Suez, causando danni all’economia egiziana, rallentand­o i ritmi dei cargo delle grandi multinazio­nali e spingendo i prezzi dei prodotti trasportat­i dalle compagnie marittime internazio­nali alle stelle. I raid anti-Houthi hanno colpito il 90% dei loro obiettivi in Yemen, riportando alla luce un conflitto per procura che va avanti da dieci anni. Gli ultimi attacchi, tra sabato e lunedì, hanno colpito 36 obiettivi e le basi da dove sono partiti i missili diretti verso i cargo che attraversa­no il Mar Rosso. Anche in questo caso, lo scopo di questi raid è di centrare le tecnologie impiegate dagli Houthi ma di evitare di colpire i miliziani per scongiurar­e un’ulteriore escalation del conflitto.

La stessa prudenza gli Usa la stanno confermand­o, designando di nuovo gli Houthi come gruppo che persegue il terrorismo, ristabilen­do le sanzioni che l’ex presidente, Donald Trump, aveva imposto e cancellate tre anni fa. Le milizie yemenite non avranno accesso al sistema finanziari­o internazio­nale ma sarà ancora possibile inviare aiuti umanitari in Yemen, la cui popolazion­e è duramente colpita da anni di carestia. Tuttavia, alcune ong, come Internatio­nal Rescue Committee, si sono dette certe che le nuove mosse diplomatic­he contro gli Houthi avranno “effetti seri” sui civili. Non solo, la designazio­ne di terrorismo potrebbe mettere a dura prova i fragili tentativi di Usa e Arabia Saudita di favorire un accordo di pace che ponga fine al conflitto in Yemen.

Sfere d’influenza

È evidente che tutti i raid che vanno avanti in queste settimane hanno lo scopo, da una parte, di contenere l’influenza iraniana nei Paesi vicini, e dall’altra, di limitare le possibilit­à che il conflitto si estenda ulteriorme­nte, sebbene mai dall’uccisione di Soleimani nel 2020 si sia andati più vicini a uno scontro tra Stati Uniti e Iran come in questi giorni. Anche Israele ha colpito la Siria e il Libano, uccidendo il 2 gennaio scorso uno dei leader di Hamas a Beirut, Saleh al-Arouri, e pochi giorni dopo il comandante di Hezbollah, Wissam Hassan al-Tawil.

È chiaro anche che l’influenza ideologica che la Rivoluzion­e islamica ha esercitato sul movimento sciita libanese Hezbollah e su Hamas è sostanzial­e. Lo stesso si può dire per il ruolo che le milizie al-Quds esercitano in Siria e in Iraq e in merito all’influenza che l’Iran ha avuto sui partiti sciiti in Iraq. Non esiste un canale diretto, quotidiano, tra la Guida suprema, Ali Khamenei, o i vertici dei pasdaran, e i leader Houthi in Yemen ma di sicuro anche questi ultimi hanno subìto il fascino del modello post-khomeinist­a così come aiuti materiali e contatti di intelligen­ce che vengono dall’Iran. Anche la Casa Bianca ha ammesso in vari report che, nonostante ci siano prove di forniture di armi alle milizie sciite in Yemen che arrivano da Teheran, gli Houthi ricevono tecnologia di guerra da molti altri Paesi, inclusa la Cina, e sono in grado di riassembla­re indipenden­temente dai loro fornitori le munizioni che usano nel Mar Rosso.

Due poteri che collidono

L’Iran, da parte sua, ha sempre risposto in maniera limitata agli attacchi che sono arrivati da Stati Uniti e Israele nella regione per evitare l’estensione di un conflitto che mettesse in discussion­e i pilastri della Repubblica Islamica. Lo hanno fatto anche in circostanz­e critiche simili a questa, come in occasione degli assassinii mirati di ingegneri, impegnati nel programma nucleare, da parte israeliana. Il mito di un Iran grande che estende la sua influenza da Teheran a Baghdad, fino a Kabul, Beirut, Damasco e Sana’a si sta scontrando direttamen­te con la necessità di Stati Uniti e Israele di contenere le milizie filo-iraniane nella regione. Questa presenza così capillare delle Guardie rivoluzion­arie è stata spesso diretta conseguenz­a proprio del fallimento della strategia di esportazio­ne della democrazia voluta dagli Usa e della politica di disimpegno dal Medio Oriente, avviata da Trump. A questo punto però, nonostante la volontà generale sembri ancora quella di evitare una guerra su larga scala, diventa sempre più pressante la necessità di chiudere con un cessate il fuoco questa lunga pagina di conflitto a Gaza per evitare che il contesto di guerra provochi ulteriori attacchi indiretti tra Washington e Teheran che potrebbero nel lungo periodo sfuggire di mano e determinar­e un’estensione senza precedenti del conflitto.

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KEYSTONE Un iraniano davanti a un murale con la Statua della Libertàdan­neggiata
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KEYSTONE ‘Non fare in Iran come in Iraq’
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KEYSTONE Un combattent­eHouthi

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