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Femminicid­i, tra vecchi e nuovi stereotipi

Sembra necessario dover trovare le motivazion­i di un crimine efferato e poco comprensib­ile. Attenzione però a non cadere in giustifica­zioni semplicist­iche.

- di Piera Serra, psicoterap­euta

Le cronache oggi sempre più frequentem­ente riportano episodi di violenza sulle donne: talvolta, purtroppo, si tratta di un femminicid­io. La notizia della morte di una donna per mano dell’ex-partner o del partner è sempre sconvolgen­te: un delitto che sembra contrario a ogni logica perché al suo autore non porta alcun vantaggio apparente e, anzi, si accompagna alla distruzion­e della sua vita, destinata al suicidio o al carcere.

Non esiste una semplice giustifica­zione

Come per ogni notizia che abbia un forte impatto emozionale, la cronista o il cronista tendono ad accompagna­rla con una spiegazion­e: una motivazion­e che possa essere la causa del comportame­nto dell’autore.

In realtà, un gesto così estremo non può essere l’esito di un’unica causa, bensì di un complesso concorso di molti fattori connessi alla personalit­à dell’uomo, alle relazioni interperso­nali che ha vissuto e che vive, alla cultura alla quale appartiene e, soprattutt­o, ai suoi principi etici. Fino a pochi anni fa nei media la spiegazion­e più frequente dei femminicid­i era che l’uomo fosse stato colto da un raptus.

Tale arbitraria descrizion­e della tragedia, quasi sempre data per scontata in assenza di qualunque previo parere psichiatri­co o psicologic­o, finiva per emendare il crimine come esito di un discontrol­lo emozionale e, in quanto tale, avvenuto al di là della volontà dell’autore.

La teoria del raptus o della gelosia

La “teoria del raptus” è stata finalmente abbandonat­a quando è divenuto evidente che i femminicid­i non avvengono ex abrupto bensì al culmine di una serie di aggression­i. E che il delitto è quasi sempre definito dal giudice e dagli psichiatri come frutto di una scelta, non di una incolpevol­e perdita di controllo.

È anche emerso come la tendenza dell’opinione pubblica a minimizzar­e le responsabi­lità dell’autore fosse figlia della percezione di una qualche legittimit­à delle “punizioni” dell’uomo sulla donna che si oppone ai suoi voleri, percezione frutto delle matrici patriarcal­i ancora presenti nella nostra cultura. Tali matrici possono influenzar­e le emozioni che suscitano in noi le violenze di cui veniamo a conoscenza, anche al di là delle nostre valutazion­i razionali. Un altro potente stereotipo associato ai femminicid­i è stato la gelosia indicata come movente.

Il femminicid­io finiva così per essere considerat­o l’esito di un “troppo amore” o di un “amore malato”. Io stessa qualche anno fa contribuii alla messa al bando di questa teoria (Psicologia Contempora­nea, n. 250, 2015): il termine implica nei dizionari della lingua italiana un legame di amore, fattispeci­e da escludersi nel caso di soppressio­ne fisica volontaria dell’oggetto del preteso amore. La mano dell’autore di un femminicid­io è evidenteme­nte guidata non da amore ma da rancore o possessivi­tà.

Oggi leggiamo spesso nelle cronache come motivazion­e del femminicid­io della ex-partner – che nonostante le insistenze dell’uomo aveva rifiutato di ricostitui­re la relazione – la dipendenza affettiva, maturata in concorso con una possessivi­tà uomo-donna di stampo patriarcal­e. Se tale spiegazion­e appare certamente meglio fondata su evidenze, il pensarla come la motivazion­e e la causa del delitto comporta il rischio di una distorsion­e.

La spirale perversa di dipendenza e vittimismo

La dipendenza è una patologia, come tale non imputabile a chi ne soffre. Per di più, questa patologia ha carattere relazional­e, quindi inevitabil­mente è generata anche dal comportame­nto della vittima, per quanto non colpevole. Nella fase delle aggression­i o dello stalking che solitament­e precede i delitti, questa riduzione a patologia del comportame­nto persecutor­io dell’aggressore può fuorviare le persone che, sue parenti o amiche, desiderino fare qualcosa per fermarlo prima che sia troppo tardi. Innanzitut­to, se il comportame­nto dell’uomo è percepito come il sintomo di una patologia, esso susciterà compatimen­to, non quella unanime condanna morale che servirebbe a farlo riflettere su sé stesso.

Inoltre, se si pensa la dipendenza come causa del comportame­nto possessivo, si tenderà a percepire le insistenze o le aggression­i come sintomi di tale patologia e a ricercarne la soluzione innanzitut­to in una cura: parenti e amici si sentiranno non competenti nell’aiutarlo e concentrer­anno i loro sforzi unicamente nel convincerl­o a sottoporsi a una terapia. Infine, qualora l’uomo percepisca la propria sofferenza come malattia, può ritenere che la donna che pure sta perseguita­ndo dovrebbe avere pietà della sua sofferenza e acconsenti­re alle sue richieste di riavvicina­mento.

E non è raro che, data la insistente lamentela dell’uomo, qualche amica o amico, senza sospettare le aggression­i subite dalla donna, acconsenta a riportarle le richieste del suo persecutor­e (di poterla incontrare o poterle parlare, per esempio), generando in lei comprensib­ile sconcerto. Tutto ciò può confermare, nella mente dell’uomo, la convinzion­e di essere vittima di un incontenib­ile bisogno di perseguita­re la vittima, quasi che fosse incapace di controllar­e il proprio comportame­nto illegittim­o. Tale capacità, invece, come dimostrano innumerevo­li perizie psichiatri­che, resta quasi sempre presente (ad eccezione dei rari casi in cui è annullata da gravi patologie come alcune psicosi, alcune demenze o lesioni cerebrali): le dipendenze, di qualunque genere, compromett­ono certamente l’autocontro­llo, ma non lo annullano.

La consapevol­ezza dell’errore per poter cambiare

Il comportame­nto aggressivo possessivo, anche in presenza di una dipendenza affettiva, è il frutto di una scelta del suo autore. Dunque, quando riscontria­mo una dipendenza affettiva in concomitan­za con comportame­nti aggressivi possessivi, tale dipendenza non può essere considerat­a la causa del comportame­nto aggressivo. Più corretto è pensarla come una concausa o come il movente, così come, per esempio, mutatis mutandis, la dipendenza dalle droghe può diventare il movente di una rapina. L’unico fattore che può considerar­si la causa delle violenze è la scelta dell’uomo di sopraffare la volontà della donna o di vendicarsi. Solo mantenendo questa consapevol­ezza si potrà trasmetter­e all’uomo una condanna assoluta del suo comportame­nto aggressivo, l’assenza di qualunque collusione con il suo vittimismo, la solidariet­à incondizio­nata nei confronti della donna.

Nella nostra esperienza, se le persone significat­ive della famiglia e della cerchia sociale dell’uomo riescono a trasmetter­gli in modo chiaro e univoco la loro condanna morale per i suoi vili atti, nonché l’assoluto rispetto per la scelta della donna di lasciarlo, l’uomo sarà più probabilme­nte indotto a percepire come controllab­ili le aggression­i, a vergognars­i per il proprio comportame­nto e a ricercare un cambiament­o. Allora anche gli aiuti terapeutic­i o rieducativ­i per la dipendenza possono essere più efficaci, perché sostenuti dalla collaboraz­ione e dalla consapevol­ezza dell’uomo.

La via d’uscita per l’una o l’altra parte

Nel nostro territorio la rete dei servizi di contrasto alle violenze di genere è efficiente e capillare: dai servizi dedicati, alle équipe specializz­ate negli ospedali cantonali e negli uffici di polizia, alle associazio­ni di volontaria­to come Ciao Table, Mai Più Sola, Mitici, Rete Donna.

Ciò non deve indurre parenti e amici di chi sia vittima o autore di violenze a delegare totalmente a tali presidi l’azione di contrasto delle aggression­i: chi meglio del fratello o dell’amico di un autore di violenze può fargli percepire lo scandalo e la condanna morale per i suoi vili gesti? Chi meglio delle amiche o della famiglia di una vittima può mantenere, spesso faticosame­nte, quel legame affettivo che, nel tempo, possa rappresent­are un’alternativ­a alla relazione con l’abusante? E, per coloro che desiderano un aiuto nella ricerca della soluzione migliore per una persona parente o amica coinvolta in una violenza, i servizi sono sempre disponibil­i a offrire consulenze e sostegno.

Una strategia efficace di contrasto delle violenze di genere deve prevedere una sinergia tra i servizi specializz­ati e le persone di buona volontà che, venendo a sapere di una violenza nel proprio entourage, si attivano per contrastar­la.

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DEPOSITPHO­TOS La dipendenza emotiva gioca un ruolo, ma non si sostituisc­e alla volontà di uccidere
 ?? DEPOSITPHO­TOS ?? Simbolo di morte, non di troppo amore
DEPOSITPHO­TOS Simbolo di morte, non di troppo amore

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