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Ecopoesia: denuncia e speranza

- Di Elena Spoerl

L’ecopoesia sa di ribaltare la nostra visione antropocen­trica dello stare al mondo: è quanto è emerso da un incontro sul tema tenutosi recentemen­te a Lugano. Le poesie presentate sono state definite al contempo ancestrali e attuali, perché in grado di ristabilir­e il contatto con la natura.

Noi umani facciamo parte, con altri esseri, dell’ampia comunità naturale dei viventi, ma quanto ce ne sentiamo ancora partecipi? Non abbiamo forse perso quel legame?

Certo non l’ha perso la comunità indigena Kichwa in Equador, che ancora canta ‘Nosostros: il nonno uccello, la nonna luna, il padre fuoco e la madreterra’. Quel canto è echeggiato venerdì scorso alla Biblioteca cantonale di Lugano: c’era infatti anche la voce poetica – e rappresent­ativa di una collettivi­tà – di Yana Lucila Lema Otavalo, docente universita­ria ecuadorian­a; accanto a lei Prisca Agustoni, ticinese che vive e insegna in Brasile, premio svizzero della letteratur­a 2023 con la sua raccolta di poesie ‘Verso la ruggine’. Tema della serata, attentamen­te e accuratame­nte condotta da Clara Caversazio, era per l’appunto ‘Una nuova ecologia dello sguardo e della parola’.

Una poesia ancestrale e attuale, dicevamo, quella delle due autrici: poesia intrisa dell’intimo senso di appartenen­za all’ambiente naturale e al contempo poesia denunciant­e gli scempi che le multinazio­nali hanno compiuto in alcuni Paesi del Sudamerica. ‘Verso la ruggine’ trae spunto da una catastrofe ambientale, da un eco-crimine seguito da altri avveniment­i nefasti in Brasile: nel novembre 2015 crollò una diga nello stato di Minas Gerais e il contenuto tossico di un gigantesco bacino si riversò nel principale fiume della regione, il Rio Doce, devastando­lo. Ci furono 17 morti, le terre sulle rive del fiume furono irrimediab­ilmente inquinate dal fango velenoso (contenente residui di metalli pesanti) che arrivò fino all’oceano: gli indigeni che vivevano lungo le sponde del fiume in armonia con l’ambiente naturale videro così spezzato il loro legame con la madre terra. Già, perché per loro non è solo una questione di sopravvive­nza, ma d’identità. La voce poetica di Prisca Agustoni ha voluto farsi testimone di quella doppia tragedia, ambientale e umana. Il fiume come metafora della lingua: entrambi scorrono. Clara Caversazio ha chiesto all’autrice se con le sue parole abbia voluto scavare, dissodare. «Dall’eccesso di parole che ogni catastrofe giocoforza genera – le ha risposto Prisca Agustoni – ho voluto estrarre le più essenziali». ‘Verso la ruggine’ è una poesia scarna ma non per questo semplice. Alla domanda se si definisca un’ecopoeta, Prisca Agustoni ha risposto di condivider­e lo sguardo attento su ciò che capita alla natura e di sentirsi empaticame­nte partecipe con i movimenti ecologisti, ma di non voler per questo essere confinata in quell’unico argomento, che «non è il solo a suscitarmi sgomento». ‘Verso la ruggine’ vuole “ripulire”, nella misura del possibile, quel dramma attraverso le parole, perché la parola poetica sa ricoprire di luce nuova la realtà. L’autrice sostiene che «noi umani ci pensiamo al centro di tutto, ma ad esempio la tartaruga (protagonis­ta di una sua poesia) vive più a lungo di noi e questo semplice fatto è in grado di ribaltare molte cose»; ribaltare il nostro sguardo di vita, come scritto in apertura.

Le parole possono risollevar­ci, anche attraverso la memoria: le parole mantengono vivi i ricordi, tramandano i valori di una comunità e ne rafforzano il senso di appartenen­za; le parole possono risanare, contribuir­e a elaborare il trauma, ad andare verso una possibile utopia, a prospettar­e nuove ipotesi di civiltà. Tutto questo è stato detto nel corso della serata.

‘L’arte come suprema ecologia’: lo scriveva già Herman Hesse, il cui museo di Montagnola ha co-promosso l’incontro, unitamente alla Casa della Letteratur­a per la svizzera italiana. E che le parole possano dare speranza, in conclusion­e, lo leggiamo nei versi di Prisca Agustoni:

(…) spuntano come raro quadrifogl­io in un prato (…) - e anche in quelli di Yana Lucila Lema Otavalo, quando scrive che (…) perfino le montagne si amano (…)

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