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La bandiera al contrario, triste presagio della guerra

- di Roberto Scarcella

A pensarci dopo – e ci hanno pensato in tanti – la cerimonia d’apertura delle Olimpiadi di Sarajevo conteneva già un triste presagio. Quell’8 febbraio del 1984 era stato visto però solo per quel che era, un banalissim­o quanto imperdonab­ile errore: la bandiera olimpica – che assieme all’accensione della torcia simboleggi­a l’inizio dei Giochi – era stata issata al contrario.

Nemmeno otto anni dopo la città veniva assediata dai cecchini serbi appostati sulle stesse montagne che avevano ospitato atleti, delegazion­i, tifosi e gare: Jahorina, il Monte Trebevic e il Monte Igman non erano più i luoghi dello slalom, del bob e dello slittino, ma campi minati; lo stadio Kosevo – dove avevano sfilato 49 Paesi e 1’272 atleti – veniva circondato da cimiteri improvvisa­ti (lo è ancora) perché non si sapeva più dove seppellire i morti; gli impianti sportivi sorti nel centro della città bosniaca venivano colpiti a ripetizion­e perché l’idea di chi assediava era annientare sia fisicament­e che psicologic­amente i sarajevesi: disintegra­re un simbolo potente come l’Olimpiade non era un danno collateral­e, era un obiettivo.

Quei Giochi che annunciava­no tragedie stavano già nascendo sotto una cattiva stella: a memoria d’uomo, da quelle parti, non c’era stato ancora un inverno senza neve, ma a 24 ore dalla cerimonia inaugurale non se n’era visto nemmeno un fiocco. Nevicò all’ultimo momento, come in quei film in cui l’eroe si salva la pelle nell’ultimo fotogramma. Troppo tardi, probabilme­nte, in un Paese normale. Ma la Jugoslavia, da quasi 4 anni orfana di Tito, non era un Paese normale. Nello spazio di poco tempo, e con ancor meno tempo a disposizio­ne, il problema si era ribaltato da “dove trovare la neve” che non c’era a “come livellarla” perché era troppa. Bisognava intervenir­e sulle piste e il presidente della Federazion­e internazio­nale di sci, lo svizzero Marc Hodler, preoccupat­o, chiese al presidente del Comitato olimpico bosniaco, Branko Mikulic, come si poteva risolvere il problema: “Ci vorranno mille e più persone per spianare le piste, dove le trovate con così poco preavviso?”. Secondo chi c’era, Mikulic rispose: “Cinquemila bastano?”.

La Jugoslavia restava pur sempre un Paese comunista dove c’era chi dava ordini (anche folli) e chi eseguiva, in qualche modo. Ma era anche la nazione dell’Est che aveva più contatti con l’Occidente. Nonché capofila – con India ed Egitto – del movimento dei Paesi non allineati. Insomma Sarajevo – storico crocevia balcanico in cui convivevan­o pacificame­nte le quattro principali religioni (cattolici, ortodossi, ebrei e musulmani) – era il luogo perfetto dove far andare d’accordo il mondo per almeno due settimane. Di lì a poco gli jugoslavi non andranno nemmeno d’accordo tra loro.

Furono le prime Olimpiadi invernali disputate nell’Est Europa e cascarono proprio in mezzo a due delle edizioni più contestate della storia dei Giochi, quella di Mosca 1980, boicottata dagli americani (e da altri 64 alleati, tra cui Giappone, Germania Ovest, Canada e Cina), e quella che si sarebbe svolta di lì a qualche mese a Los Angeles, controboic­ottata dai sovietici e da altri sei Paesi sotto la loro sfera d’influenza (Bulgaria, Germania Est, Mongolia, Vietnam, Laos e Cecoslovac­chia).

Era un altro mondo, quello della Guerra Fredda, dove la prima storica medaglia olimpica invernale della Jugoslavia, Jure Franko (argento nello slalom gigante), esultava per due motivi: il secondo posto e la promessa di un videoregis­tratore. La foto di Franko (poi divenuto sloveno con la dissoluzio­ne del Paese), sempre la stessa – lui quasi accucciato mentre aggira una porta rossa con la scritta e il logo dell’Olimpiade – campeggia ancora in tanti bar, negozi e case di Sarajevo, come simbolo e attimo fuggente di un tempo fortemente rimpianto, mentre la città – assediata oggi dalle mafie come un tempo lo fu dai cecchini serbi – prova a ricostruir­si. La pista di bob devastata è diventata uno dei luoghi più amati e fotografat­i dai turisti, ed è tornata anche l’ovovia che porta al Trebevic; nel palazzetto di Skenderija – fatiscente e insieme affascinan­te – oggi si gioca a basket e si tifa pacificame­nte Bosnia. Davanti alla stazione resta però un cartello d’epoca con Vucko, l’amatissimo lupetto-mascotte dei Giochi, crivellato di colpi: nessuno lo rimuove, non si sa se per pigrizia o per coltivare la memoria. Lì c’è il perfetto riassunto di tutto, dei tempi felici e di quelli disperati, delle Olimpiadi e del loro contrario.

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KEYSTONE Guerra epace

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