Wall Street corre, i profitti meno
I tagli dei tassi Fed sono stati dilazionati, non cancellati
Apriti cielo! La brutta sorpresa nel vedere i numeri dell’inflazione americana, peggiori del previsto, aveva gettato Wall Street in profonda costernazione. L’indice dei prezzi è cresciuto del 3,1%, anziché del 2,9% atteso; quello core (senza alimentari ed energia) segna un aumento del 3,9% (3,7% atteso). La reazione dei mercati è stata violenta: il rendimento del Treasury decennale era balzato di 15 centesimi al 4,31%, l’indice S&P 500 aveva perso l’1,37% e il Nasdaq l’1,8%. Sarebbe meglio dire relativamente violenta, poiché i numeri dell’inflazione rischiavano di offuscare il roseo scenario che gli investitori avevano dipinto negli ultimi tre mesi e mezzo. L’immaginato primo taglio dei tassi Fed a marzo è del tutto sfumato, quello sperato per maggio era dato al 37%, contro 67% di una settimana prima; nemmeno certo era quello di giugno (al 78%) e dei sei tagli che gli operatori s’erano messi in testa per fine anno ne restavano appena tre e mezzo, secondo le scommesse sui Fed Fund al Cme. Sull’onda delle aspettative di fine ottobre, l’indice S&P era salito a un massimo del 22,1%, il Nasdaq del 27% e quello dei sette titoli più amati dagli investitori (Mag7) del 35%.
Questa inflazione, più tenace del previsto, rischiava di mettere in discussione tutto quello che Wall Street aveva costruito. Ma la costernazione è durata una sola seduta. E, sebbene il rendimento del Treasury fosse rimasto più o meno agli stessi livelli, la borsa aveva già recuperato quasi tutto il giorno dopo e l’indice Vix, che in qualche modo dovrebbe rappresentare la paura degli investitori, era sceso a 14, un misero punto in più di una settimana prima. “Non c’è ragione per farsi prendere dal panico”, consigliava il Wsj: i tagli dei tassi attesi sono solo dilazionati, non cancellati, e l’economia continua ad andar bene.
Non c’era nemmeno bisogno di dirlo. Per piccoli e grandi investitori, quell’inopinato incidente è diventato infatti l’occasione per comprare: il «buy the dip» è ormai la regola. In realtà non c’è nulla di sorprendente in quei dati sull’inflazione e nemmeno di così brutto. L’indice generale è comunque in calo di due decimali rispetto a dicembre e quello core è invariato, sebbene in accelerazione sul mese precedente.
Ma dove sta la sorpresa? Bastava guardare la voce prezzi nell’indice Ism servizi per capire che la soglia dell’inflazione strutturale è adesso di almeno un punto percentuale più alta di quella che ci aveva abituati il decennio scorso. Sarebbe bastato leggere le previsioni di Goldman Sachs del giorno prima, perfettamente predittive.
La sorpresa è solo il risultato di aspettative viziate da un eccessivo ottimismo. Del resto, Wall Street ha guadagnato quasi il 4% da inizio mese, scalando nuove vette, incurante del rendimento del Treasury, aumentato nel frattempo di 43 centesimi; e fanno 50 dal minimo di fine dicembre. Rialzi di borsa superiori al 20% in pochi mesi difficilmente si giustificano con attese sui tassi d’interesse dimezzate rispetto all’idilliaco scenario di qualche settimana fa. Gli analisti di Pimco, tra i più esperti sul mercato obbligazionario, ritengono che l’inflazione Usa sia «destinata a restare sopra il 3% quest’anno». Con un’economia che cresce a ritmi sostenuti è difficile che possa tornare al 2% nel 2025. Eppure Goldman stima tassi Fed al 3,5% per settembre 2025, due punti percentuali meno di adesso, e il mercato s’è spinto anche più in là nelle previsioni. Probabilmente il ricordo di tassi pressoché a zero tra il 2010 e il 2020, con un’inflazione media all’1,5% (allora si chiamava deflazione), è ancora vivo nella memoria degli operatori.
Wall Street dovrà dunque trovare elementi nuovi per giustificare le attuali valutazioni e gli operatori sostengono di averli già trovati nella crescita degli utili societari. Hanno ragione, se osserviamo i risultati del 4° trimestre 2023, in crescita del 9,2% (consenso Lseg), il doppio di quanto si pensava due mesi fa: a scapito, in parte, delle previsioni per l’intero 2024, limate di quasi due punti (al 9,7%) in un mese. L’S&P vale 22,6 volte gli utili realizzati e 20,8 quelli attesi per fine anno, in ogni caso multipli nettamente superiori alla media storica. Un tempo valeva la regola che i rialzi di borsa dovevano essere coerenti con la crescita degli utili societari, ma da parecchi anni le cose sono andate diversamente.
Da dicembre 2008, l’S&P è cresciuto del 359%, mentre gli utili sono aumentati del 243% e del 270% sulle stime per fine anno. Se l’indice avesse seguito la tendenza dei profitti dovrebbe essere 1.000/1.300 punti più basso. Si dirà che i tassi a zero del decennio scorso (il rendimento medio del Treasury era sotto il 2%) facevano giustamente lievitare le valutazioni azionarie. Vediamo allora cosa succede dal dicembre 2021, poiché la Fed inizia ad alzare i tassi a marzo 2022. La borsa ha guadagnato il 23,2% con utili (realizzati) in crescita di appena il 7,9% o il 16,7% se si prendono quelli stimati al 2024: i tassi a zero c’entrano ben poco. In oltre 15 anni i guadagni di Wall Street si giustificano per circa il 70% con la crescita degli utili e per il 30% con l’espansione dei multipli (p/e). Non c’è dubbio che la tendenza prosegua, specie se si considera l’euforia per l’intelligenza artificiale che ha fatto esplodere le capitalizzazioni di parecchi titoli. Quelle di Nvidia sono volate del 405% in poco più di 13 mesi. E, man mano che prosegue la tendenza, s’annulla la percezione del rischio. Il premio per il rischio azionario, comunque lo si calcoli, è al minimo degli ultimi 22 anni, prossimo allo zero, quasi come ai tempi della bolla speculativa del 2000.