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Wall Street corre, i profitti meno

I tagli dei tassi Fed sono stati dilazionat­i, non cancellati

- di Walter Riolfi, L’Economia

Apriti cielo! La brutta sorpresa nel vedere i numeri dell’inflazione americana, peggiori del previsto, aveva gettato Wall Street in profonda costernazi­one. L’indice dei prezzi è cresciuto del 3,1%, anziché del 2,9% atteso; quello core (senza alimentari ed energia) segna un aumento del 3,9% (3,7% atteso). La reazione dei mercati è stata violenta: il rendimento del Treasury decennale era balzato di 15 centesimi al 4,31%, l’indice S&P 500 aveva perso l’1,37% e il Nasdaq l’1,8%. Sarebbe meglio dire relativame­nte violenta, poiché i numeri dell’inflazione rischiavan­o di offuscare il roseo scenario che gli investitor­i avevano dipinto negli ultimi tre mesi e mezzo. L’immaginato primo taglio dei tassi Fed a marzo è del tutto sfumato, quello sperato per maggio era dato al 37%, contro 67% di una settimana prima; nemmeno certo era quello di giugno (al 78%) e dei sei tagli che gli operatori s’erano messi in testa per fine anno ne restavano appena tre e mezzo, secondo le scommesse sui Fed Fund al Cme. Sull’onda delle aspettativ­e di fine ottobre, l’indice S&P era salito a un massimo del 22,1%, il Nasdaq del 27% e quello dei sette titoli più amati dagli investitor­i (Mag7) del 35%.

Questa inflazione, più tenace del previsto, rischiava di mettere in discussion­e tutto quello che Wall Street aveva costruito. Ma la costernazi­one è durata una sola seduta. E, sebbene il rendimento del Treasury fosse rimasto più o meno agli stessi livelli, la borsa aveva già recuperato quasi tutto il giorno dopo e l’indice Vix, che in qualche modo dovrebbe rappresent­are la paura degli investitor­i, era sceso a 14, un misero punto in più di una settimana prima. “Non c’è ragione per farsi prendere dal panico”, consigliav­a il Wsj: i tagli dei tassi attesi sono solo dilazionat­i, non cancellati, e l’economia continua ad andar bene.

Non c’era nemmeno bisogno di dirlo. Per piccoli e grandi investitor­i, quell’inopinato incidente è diventato infatti l’occasione per comprare: il «buy the dip» è ormai la regola. In realtà non c’è nulla di sorprenden­te in quei dati sull’inflazione e nemmeno di così brutto. L’indice generale è comunque in calo di due decimali rispetto a dicembre e quello core è invariato, sebbene in accelerazi­one sul mese precedente.

Ma dove sta la sorpresa? Bastava guardare la voce prezzi nell’indice Ism servizi per capire che la soglia dell’inflazione struttural­e è adesso di almeno un punto percentual­e più alta di quella che ci aveva abituati il decennio scorso. Sarebbe bastato leggere le previsioni di Goldman Sachs del giorno prima, perfettame­nte predittive.

La sorpresa è solo il risultato di aspettativ­e viziate da un eccessivo ottimismo. Del resto, Wall Street ha guadagnato quasi il 4% da inizio mese, scalando nuove vette, incurante del rendimento del Treasury, aumentato nel frattempo di 43 centesimi; e fanno 50 dal minimo di fine dicembre. Rialzi di borsa superiori al 20% in pochi mesi difficilme­nte si giustifica­no con attese sui tassi d’interesse dimezzate rispetto all’idilliaco scenario di qualche settimana fa. Gli analisti di Pimco, tra i più esperti sul mercato obbligazio­nario, ritengono che l’inflazione Usa sia «destinata a restare sopra il 3% quest’anno». Con un’economia che cresce a ritmi sostenuti è difficile che possa tornare al 2% nel 2025. Eppure Goldman stima tassi Fed al 3,5% per settembre 2025, due punti percentual­i meno di adesso, e il mercato s’è spinto anche più in là nelle previsioni. Probabilme­nte il ricordo di tassi pressoché a zero tra il 2010 e il 2020, con un’inflazione media all’1,5% (allora si chiamava deflazione), è ancora vivo nella memoria degli operatori.

Wall Street dovrà dunque trovare elementi nuovi per giustifica­re le attuali valutazion­i e gli operatori sostengono di averli già trovati nella crescita degli utili societari. Hanno ragione, se osserviamo i risultati del 4° trimestre 2023, in crescita del 9,2% (consenso Lseg), il doppio di quanto si pensava due mesi fa: a scapito, in parte, delle previsioni per l’intero 2024, limate di quasi due punti (al 9,7%) in un mese. L’S&P vale 22,6 volte gli utili realizzati e 20,8 quelli attesi per fine anno, in ogni caso multipli nettamente superiori alla media storica. Un tempo valeva la regola che i rialzi di borsa dovevano essere coerenti con la crescita degli utili societari, ma da parecchi anni le cose sono andate diversamen­te.

Da dicembre 2008, l’S&P è cresciuto del 359%, mentre gli utili sono aumentati del 243% e del 270% sulle stime per fine anno. Se l’indice avesse seguito la tendenza dei profitti dovrebbe essere 1.000/1.300 punti più basso. Si dirà che i tassi a zero del decennio scorso (il rendimento medio del Treasury era sotto il 2%) facevano giustament­e lievitare le valutazion­i azionarie. Vediamo allora cosa succede dal dicembre 2021, poiché la Fed inizia ad alzare i tassi a marzo 2022. La borsa ha guadagnato il 23,2% con utili (realizzati) in crescita di appena il 7,9% o il 16,7% se si prendono quelli stimati al 2024: i tassi a zero c’entrano ben poco. In oltre 15 anni i guadagni di Wall Street si giustifica­no per circa il 70% con la crescita degli utili e per il 30% con l’espansione dei multipli (p/e). Non c’è dubbio che la tendenza prosegua, specie se si considera l’euforia per l’intelligen­za artificial­e che ha fatto esplodere le capitalizz­azioni di parecchi titoli. Quelle di Nvidia sono volate del 405% in poco più di 13 mesi. E, man mano che prosegue la tendenza, s’annulla la percezione del rischio. Il premio per il rischio azionario, comunque lo si calcoli, è al minimo degli ultimi 22 anni, prossimo allo zero, quasi come ai tempi della bolla speculativ­a del 2000.

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KEYSTONE Gli analisti di Pimco ritengono che l’inflazione statuniten­se sia ‘destinata a restare sopra il 3% quest’anno’
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KEYSTONE Mercati euforici per l’intelligen­za artificial­e

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