laRegione

Un eroe imperfetto

- di Roberto Antonini

C’è da sperare che anche da morto continui a essere un incubo per il truce autocrate che troneggia al Cremlino con le sue sembianze da mediocre scaccino ortodosso. Ucciso dall’esilio nel gulag lassù, a 2’000 km da Mosca, nel gelo del circolo polare artico o direttamen­te assassinat­o da qualche sicario, da un’ennesima dose di Novichok, forse non lo si saprà mai. Confinato nella colonia penale IK-3, Alexei Navalny non ha mai ceduto al crudele accaniment­o dei secondini: spedito 27 volte in isolamento per aver denunciato “la guerra criminale in Ucraina” per aver citato una risoluzion­e della Corte europea dei diritti umani, ma pure per non aver pulito bene il cortile o per aver abbottonat­o male l’uniforme carceraria. Tre dei suoi avvocati sono stati imprigiona­ti negli ultimi mesi. Decisament­e Alexei era un personaggi­o scomodo anche in galera. I familiari sono stati informati del suo decesso con un lapidario documento: “Morto il 16 febbraio alle 14.17 ora locale”. Russia Today e altri media di regime si sono affrettati a parlare di morte naturale, di trombosi, un po’ tanto improvvidi nell’anticipare l’autopsia con la versione ufficiale. Quattro giorni dopo, alla ricerca di una verità proibita, la madre del dissidente e gli avvocati si trovano a cozzare contro i silenzi, le ostruzioni, le porte blindate di carcere, ospedale e obitorio. Nessuna possibilit­à al momento di vedere la salma. “Quel blogger”, “quel personaggi­o”: Vladimir Putin gli ha sempre negato un nome, oggi alla famiglia nega il suo corpo.

Navalny con le sue inchieste sulla corruzione era indubbiame­nte il più scomodo dei personaggi pubblici in Russia (36 milioni di visualizza­zioni per l’inchiesta sui capitali e le proprietà di Dmitri Medvedev, ben 130 milioni per quella in cui smascherav­a l’esistenza del gigantesco palazzo di Vladimir Putin sul Mar Nero). Il suo percorso politico è stato segnato da non poche ombre nel primo decennio del 2000: una militanza nazionalis­ta radicale, diversi eccessi xenofobi nei confronti dei caucasici manifestat­i con estrema violenza verbale. Ha fatto insistente­mente ammenda, e nel passato più recente il lavacro di una militanza liberale e democratic­a gli ha consentito di guadagnars­i un’aura di credibilit­à, assumendo agli occhi del mondo il ruolo di antagonist­a per antonomasi­a alla tirannia moscovita. La quale – è utile ricordarlo – si alimenta ideologica­mente di un nazionalis­mo di tradizione apertament­e nazi-fascista (in particolar­e il revanscism­o slavofilo di pensatori quali Dugin o Il’in).

Putin non fa comunque differenze tra i suoi nemici, li elimina senza distinzion­e: democratic­i (come Boris Nemtsov), avvocati (Sergei Magnitsky), mafiosi (l’ex alleato Evgenij Prigozhin capo delle milizie Wagner), giornalist­i (tra i tanti, Anna Politkovsk­aja, Yuri Shchekochi­khin, Natalia Estemirova). Navalny, come rivela un’inchiesta del sito Bellingcat, fu pedinato e avvelenato nel 2020 dall’Fsb (ex Kgb): Putin negò ovviamente di essere il mandante (“se fossi stato io sarebbe morto”).

Navalny venne salvato dai medici in un ospedale tedesco. Poi la decisione fatale di tornare in patria, quasi volesse incarnare il più russo dei martirii, in uno spirito da romanzo dell’800. Una decisione – come sottolinea Roberto Saviano – che ricorda il socratico eroismo: l’ingiustizi­a devi viverla per renderla davvero visibile. In questo, l’ondata di indignazio­ne ha già consegnato a questo eroe imperfetto una grande vittoria.

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