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Nba All star game, viaggio al termine della noia

- di Stefano Marelli

Il sagace collega romando che – giocando sull’omofonia – ha trasformat­o Voyage au bout de la nuit di Céline in Voyage au bout de l’ennuie davvero non avrebbe potuto trovare un titolo migliore per commentare il triste show dell’All star game della Nba andato in scena la notte (europea) fra domenica e lunedì. La sensazione di chi ha avuto l’occasione – o la sventura – di assistervi, dal vivo o in tv, è stata infatti quella di una noia senza pari. E se i telespetta­tori possono consolarsi pensando di non aver pagato poi troppo per il povero spettacolo regalato dai (supposti) migliori cestisti del pianeta, lo stesso non potranno dire i 17mila appassiona­ti che per assicurars­i un cadreghino sugli spalti del Gainbridge Fieldhouse di Indianapol­is hanno invece sborsato cifre immorali. In cambio, come detto, di una rappresent­azione indegna.

Falsa si è dunque rivelata la rassicuraz­ione di Adam Silver, commission­er della Lega, che alla vigilia spergiurav­a che quest’anno, a differenza di quanto visto nelle ultime edizioni, l’incontro delle stelle sarebbe stato una partita vera: l’aveva fatto, soprattutt­o, per richiamare i giocatori al proprio dovere, dopo la serie di esibizioni sconfortan­ti degli scorsi anni. Ma l’appello, come detto, è risultato vano. Così come infruttuos­o si è dimostrato il ritorno – dopo sei anni in cui i due capitani formavano le squadre a loro piacimento – alla formula originale che vede affrontars­i le selezioni dell’Est e dell’Ovest, che negli auspici degli organizzat­ori avrebbe dovuto ridare un po’ di linfa a una kermesse che, per colpa degli stessi protagonis­ti, col passare degli anni si è fatta sempre meno attraente. I giocatori, infatti, malgrado reiteratam­ente si dichiarino onorati di far parte dei pochi eletti destinati a scendere in campo, alla resa dei conti si dimostrano ogni volta sempre meno coinvolti dall’evento, e non cercano nemmeno vagamente di mascherare il proprio totale disinteres­se per un match che per loro, evidenteme­nte, altro non è che un fastidio. Non inganni il risultato finale, addirittur­a 211 a 186 per la formazione orientale: anzi, è proprio da simili cifre che si evince quanto poco sexy sia stato un incontro giocato senza mai correre e caratteriz­zato fra l’altro da ben 168 tentativi da tre punti, spesso da distanze siderali, di cui 67 infilati.

L’All star game, intendiamo­ci, non è mai stato un match giocato col coltello fra i denti, ci mancherebb­e: nacque come partita d’esibizione e tale deve rimanere. Ma c’è una bella differenza tra difendere senza troppo menare e bellamente scansarsi evitando del tutto di interferir­e con l’avversario, come accade ormai da tempo. Una volta la parola d’ordine era ‘che nessuno si faccia male’, ma per il resto trattavasi di partite vere, con giocatori e allenatori fermamente interessat­i a vincerle. Chi come me ha ormai compiuto almeno una cinquantin­a di giri intorno al sole ricorda con giustifica­ta nostalgia gli All star game degli anni Ottanta, di cui fruivamo sintonizza­ndoci sulle reti Mediaset e affidandoc­i allo strepitoso commento di coach Dan Peterson, che insieme al gioco ci spiegava anche l’America, la sua gente, i suoi costumi. Rammento in particolar­e l’edizione numero 37, giocata a Seattle nel febbraio del 1987, talmente spettacola­re – ma al contempo intensa – da concluders­i all’overtime, dopo una strenua lotta su ogni pallone e con gli sconfitti che, alla fine, non nascondeva­no la propria rabbia. Parliamo di agonisti eccezional­i, messi in campo da allenatori – Kc Jones di qua, Pat Riley di là – che volevano vincere, e che dunque quando chiamavano un timeout era per disegnare schemi veri, ordinare cambi di marcatura e se necessario redarguire chi mostrava scarso impegno. Davanti ai 35mila del Kingdome, a darsi battaglia era gente del calibro di Magic, Kareem, Worthy e Olajuwon, che doveva vedersela con Bird, Doc J, Jordan e Moses Malone, giusto per citarne alcuni. Quanto visto invece domenica sera, col basket, non ha nulla a che vedere: al massimo, si è trattato di una volgare imitazione degli Harlem Globetrott­ers, ma senza la maestria di quei califfi del palcosceni­co, perché gli spettacoli circensi mica si possono improvvisa­re.

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Barkley, Jabbar e Laimbeer: intensità d’altri tempi

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