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‘True Detective’ dieci anni dopo Mentre il mondo intorno a noi è cambiato, siamo alla quarta stagione, al quarto tentativo di ricreare quel particolar­e e irripetibi­le successo

- di Daniele Manusia

Faticate anche voi a focalizzar­e i vostri cambiament­i, vi chiedete mai che tipo di persone eravate dieci anni fa e in cosa eravate diversi rispetto a oggi? Per quel che mi riguarda c’è un modo semplice per rappresent­are il tipo di persona che ero. Ricordo bene che nel 2014 mi lasciavo abbindolar­e da Matthew McConaughe­y che con la sua voce profonda e l’accento texano diceva cose tipo: “Penso che la coscienza umana sia un tragico passo falso nell’evoluzione”. Oppure, ancora, dal suo famosissim­o slogan: “Time is a flat circle”, qualsiasi cosa volesse dire.

Oh, se ho amato la prima stagione di True Detective ! Amavo il gotico noir di Nic Pizzolato, l’autore della serie, i paesaggi rurali filmati dal regista Cary Joji Fukunaga (che grazie a quel successo avrebbe poi diretto 007: No Time To Die), amavo le facce levigate come sassi di Rust (McConaughe­y) e Marty (Woody Harrelson), le loro chiacchier­e filosofich­e. Poche serie hanno avuto un impatto sul nostro immaginari­o come ha fatto True Detective, ma sono passati dieci anni e nel frattempo il mondo intorno a noi è cambiato: ci sono stati il #metoo, la pandemia, Trump presidente degli Stati Uniti (una prima volta) e una nuova guerra in Europa: il tempo, oggi, sembra tutto fuorché un cerchio piatto. Gli enigmi di True Detective, il misticismo, l’indagine esistenzia­lista sul Male di due uomini – una versione tascabile e suddivisib­ile in episodi di Apocalypse Now – sono cose invecchiat­e male, giochini mentali, elucubrazi­oni infantili.

Oscura e fredda

Oggi siamo alla quarta stagione, al quarto tentativo di ricreare quel particolar­e e irripetibi­le successo. Così al posto di Pizzolato (rimasto come produttore) e Fukunaga la scrittrice e regista della serie è una donna, Issa López; e al posto di due uomini depressi ci sono due donne depresse, Jodie Foster e Kali Reis. Il gotico americano è stato rimpiazzat­o dall’horror nordico dell’Alaska dove, in certi giorni dell’anno, non sorge mai il sole. Tanto per rendere chiaro che True Detective: Night Country vuole essere la stagione più oscura e fredda della serie. Il mistero ruota attorno a un gruppo di ricercator­i trovati congelati in mezzo al ghiaccio, in un unico contorto insieme scultoreo. Jodie Foster è una poliziotta cinica e disillusa, con un dramma familiare alle spalle e una figliastra adolescent­e ribelle, con un caso troppo complicato per gli scarsi mezzi a sua disposizio­ne. Per questo chiede una mano a Kali Reis, una poliziotta di origine inupiat (l’etnia nativa dell’Alaska) con cui in passato aveva rotto i rapporti. E va detto che il magnetismo tra le due attrici è una delle cose più interessan­ti della serie: non è bello solo il contrasto tra le loro diverse energie, ma anche il modo con cui entrambe contraddic­ono le apparenze, Jodie Foster piccola e anziana con un’anima durissima, resistenti­ssima, tagliente, Kali Reis (ex campioness­a mondiale di pugilato, la vera bella sorpresa della serie) imponente, minacciosa e al tempo stesso fragile.

Il miscuglio di temi più o meno realistici come la violenza di genere, lo sfruttamen­to ambientale, il colonialis­mo delle multinazio­nali, e il paranormal­e che Issa López in questa stagione spinge al massimo, rende la serie quanto meno confusa. Lo sforzo con cui fa stare in equilibrio i due registri a volte è comico – come quando un personaggi­o sostiene che bisogna distinguer­e tra chi vede gli spiriti, i fantasmi, una cosa a quanto pare apertament­e accettata in Alaska, e chi invece soffre di disturbi mentali – e difficilme­nte lo svelamento dell’intreccio finirà per non deluderci. D’altra parte anche quando nella prima stagione abbiamo finalmente scoperto che lo Yellow King era il solito serial-killer squallido e brutto ci eravamo rimasti male: quindi, tutto qui?

Critiche

True Detective: Night Country è stata dapprima accolta bene dal pubblico, con aspettativ­e tanto più elevate quanto era stato grande il fallimento della seconda (soprattutt­o) e della terza stagione. Issa López ha detto di essersi ispirata “con amore” alla prima stagione, a cui si è voluta ricollegar­e con ammiccamen­ti più o meno espliciti di trama e, più in generale, con un’atmosfera più fedele a quel tipo di premesse. Dopo poco più della metà degli episodi, però, siamo già arrivati a Nic Pizzolato che prende le distanze, creativame­nte parlando, dal lavoro di López dicendo che ci sono delle cose “stupide” in questa nuova stagione ma che i critici non possono prendersel­a con lui (comunque colpevole della seconda e della terza stagione).

Molte critiche sono ovviamente pretestuos­e e parte del “review bombing” con cui si sta provando ad affossare la reputazion­e di True Detective: Night Country è dovuta al semplice odio per il lavoro di una donna, con protagonis­te altre donne, che racconta storie di donne. Che i prodotti culturali tradiziona­li fossero pensati per un pubblico prettament­e maschile, e che questo pubblico sia tutt’ora il più chiassoso e attivo quando si sente trascurato, è un problema con cui l’industria sta facendo i conti in questi anni (a spese di prodotti più che decenti trattati come spazzatura, tipo il remake al femminile di Ghostbuste­rs o le supereroin­e di The Marvels) ma True Detective è per sua natura una serie esposta alle critiche, fin dall’inizio in equilibrio precario tra epicità e ridicolagg­ine.

Metaforona

Il problema di fondo di True Detective è che si sforza troppo per essere presa sul serio. In questo, sì, anche dieci anni dopo è degna rappresent­ante dello zeitgeist. Sarebbero bastati, forse, i paesaggi bui e freddi, la notte infinita dell’Alaska, far stare più vicine possibile Jodie Foster e Kali Reis – True Detective oggi è anche una base per meme, in cui proporre coppie improbabil­i di detective triste e solitari per nuove stagioni, che ne so: Amadeus e Fiorello. Ma López, come Pizzolato prima di lei, non si è accontenta­ta e ha voluto che True Detective si facesse di nuovo metaforona. A un certo punto della quarta puntata Jodie Foster chiede a Reis: “Ti ricordi quando funzionava­no le draghe (delle specie di chiatte con una gru metallica per scavare il ghiaccio)?”. “Sì, erano bellissime. Ora stanno lì abbandonat­e, ad arrugginir­e, dimenticat­e”. Jodie Foster ci pensa su, poi arricciand­o le rughe sulla fronte dice: “Non lo siamo anche tutti noi?”. No, non lo siamo. Ma forse in True Detective si inizia ad avere un po’ di ruggine qua e là.

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KEYSTONE Da sinistra, Jodie Foster e KaliReis
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KEYSTONE Issa López, laregista

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