La famiglia Höss e l’enigma del male
Allo spettatore che a poco a poco entra nel mondo di ‘The Zone of Interest’, appare con sempre maggior chiarezza che film di Glazer rende perfettamente, oltre che la mancanza di empatia del protagonista, anche lo stile di vita borghese della sua famiglia: con il suo corollario di buone maniere, di controllo delle pulsioni, di rituali domestici, con le sue pratiche di sublimazione e di razionalizzazione dei sentimenti. Tanto che effettivamente, guardando il film, qualunque spettatore può pensare che, in fondo, la vita di quella famiglia non è poi così diversa da quella di molte altre famiglie borghesi dell’epoca, fatta di conflitti, animata da aspirazioni, venata da preoccupazioni. E anche la famiglia di Rudolf Höss, come tutte le famiglie, ogni tanto, inevitabilmente, entra in crisi. In questi momenti succede che alcuni spettatori, giustamente, si allertino. È un po’ come se da quei momenti di crisi ci si aspettasse che qualcosa, di quell’equilibrio apparente, si rompesse improvvisamente, mandando in frantumi un mondo, facendo emergere in superficie una violenza ceca tale da lacerare il velo di quella tranquillità quotidiana. Potrebbe succedere, ma il fatto è che non succede: e il momento di crisi, e di possibile, definitiva e radicale rottura, semplicemente non c’è. Non è sicuramente fuori luogo, in questo senso, scomodare la Arendt per dire che il film di Glazer esprime in modo esemplare la banalità del male. In ‘The Zone of Interest’ il male viene letteralmente diluito nei dettagli nella vita quotidiana: viene addomesticato, normalizzato, si mescola e si cristallizza nelle venature delle nevrosi quotidiane della famiglia Höss. Anche la regia cinematografica di Glazer, con perfezione speculare, rende questa banalità del male con uno stile asciutto, ineccepibile, misuratissimo, senza fronzoli. Se non fosse per un dettaglio – apparentemente marginale – che però, alla fine, incide, e fa la differenza: quei suoni informi e non diegetici che fanno parte della colonna sonora. Materici, ingombranti e antimelodici ricordano un po’ un didgeridoo, e ogni tanto invadono lo schermo senza che lo spettatore sappia da dove arrivano. La loro funzione non è sottolineare un frangente della storia, una fase di tensione, o un momento risolutivo: semplicemente ci sono. In questi suoni, però, si delinea una nuova lettura del film, più sfuggente, ma non meno importante. Per quanto sembrino fuori luogo, e per nulla in linea con lo stile misurato delle immagini, quei suoni così alieni fanno affiorare una domanda che non possiamo eludere: quando tutto il male che si può diluire nella quotidianità viene di fatto diluito nella quotidianità, cosa rimane? Ebbene, quei suoni materici rappresentano il residuo insolubile del male. Sono il male nella sua essenza: un’essenza che è anche groviglio, nodo, enigma indecifrabile. Poiché tutto ciò che si può decifrare, codificare, addomesticare, può diventare banalità. Quel suono materico così ingombrante e denso è ciò che del male non si può reprimere. È il male che ritorna, nella sua veste prelinguistica, attraverso l’inconscio. È il reale che non si può cancellare.