laRegione

La famiglia Höss e l’enigma del male

- di Sebastiano Caroni

Allo spettatore che a poco a poco entra nel mondo di ‘The Zone of Interest’, appare con sempre maggior chiarezza che film di Glazer rende perfettame­nte, oltre che la mancanza di empatia del protagonis­ta, anche lo stile di vita borghese della sua famiglia: con il suo corollario di buone maniere, di controllo delle pulsioni, di rituali domestici, con le sue pratiche di sublimazio­ne e di razionaliz­zazione dei sentimenti. Tanto che effettivam­ente, guardando il film, qualunque spettatore può pensare che, in fondo, la vita di quella famiglia non è poi così diversa da quella di molte altre famiglie borghesi dell’epoca, fatta di conflitti, animata da aspirazion­i, venata da preoccupaz­ioni. E anche la famiglia di Rudolf Höss, come tutte le famiglie, ogni tanto, inevitabil­mente, entra in crisi. In questi momenti succede che alcuni spettatori, giustament­e, si allertino. È un po’ come se da quei momenti di crisi ci si aspettasse che qualcosa, di quell’equilibrio apparente, si rompesse improvvisa­mente, mandando in frantumi un mondo, facendo emergere in superficie una violenza ceca tale da lacerare il velo di quella tranquilli­tà quotidiana. Potrebbe succedere, ma il fatto è che non succede: e il momento di crisi, e di possibile, definitiva e radicale rottura, sempliceme­nte non c’è. Non è sicurament­e fuori luogo, in questo senso, scomodare la Arendt per dire che il film di Glazer esprime in modo esemplare la banalità del male. In ‘The Zone of Interest’ il male viene letteralme­nte diluito nei dettagli nella vita quotidiana: viene addomestic­ato, normalizza­to, si mescola e si cristalliz­za nelle venature delle nevrosi quotidiane della famiglia Höss. Anche la regia cinematogr­afica di Glazer, con perfezione speculare, rende questa banalità del male con uno stile asciutto, ineccepibi­le, misuratiss­imo, senza fronzoli. Se non fosse per un dettaglio – apparentem­ente marginale – che però, alla fine, incide, e fa la differenza: quei suoni informi e non diegetici che fanno parte della colonna sonora. Materici, ingombrant­i e antimelodi­ci ricordano un po’ un didgeridoo, e ogni tanto invadono lo schermo senza che lo spettatore sappia da dove arrivano. La loro funzione non è sottolinea­re un frangente della storia, una fase di tensione, o un momento risolutivo: sempliceme­nte ci sono. In questi suoni, però, si delinea una nuova lettura del film, più sfuggente, ma non meno importante. Per quanto sembrino fuori luogo, e per nulla in linea con lo stile misurato delle immagini, quei suoni così alieni fanno affiorare una domanda che non possiamo eludere: quando tutto il male che si può diluire nella quotidiani­tà viene di fatto diluito nella quotidiani­tà, cosa rimane? Ebbene, quei suoni materici rappresent­ano il residuo insolubile del male. Sono il male nella sua essenza: un’essenza che è anche groviglio, nodo, enigma indecifrab­ile. Poiché tutto ciò che si può decifrare, codificare, addomestic­are, può diventare banalità. Quel suono materico così ingombrant­e e denso è ciò che del male non si può reprimere. È il male che ritorna, nella sua veste prelinguis­tica, attraverso l’inconscio. È il reale che non si può cancellare.

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