laRegione

Il circolo vizioso non è rotondo

- di Daniel Ritzer

Come il cerchio di ‘Prima della pioggia’, anche il circolo vizioso in cui è intrappola­to il Ticino è lungi dall’essere rotondo. Denatalità, fuga di cervelli, onere fiscale accresciut­o e spesa pubblica “troppo elevata” hanno un comune denominato­re (chiamiamol­o pure fattore scatenante): i salari troppo bassi, inferiori di almeno il 20% rispetto allo stipendio svizzero medio. La tesi esposta dall’ex consiglier­e di Stato Pietro Martinelli (laRegione del 12 febbraio), rafforzata dalla visione del già direttore dell’Ustat Elio Venturelli (laRegione del 17 febbraio), fornisce una chiave di lettura indispensa­bile per chiunque voglia comprender­e la dinamica finanziari­a, politica e demografic­a del nostro cantone.

La sequenza sarebbe questa: i salari troppo bassi determinan­o la necessità di uno Stato sociale molto vasto, che vada a compensare le inefficien­ze del mercato del lavoro. Mercato del lavoro e relativo livello degli stipendi che vengono condiziona­ti dall’inesauribi­le manodopera frontalier­a, disponibil­e a lavorare in cambio di salari parecchio inferiori rispetto ai canoni elvetici. Qui bisogna fare attenzione però a non prendere la scorciatoi­a populista/sovranista: la causa del problema non è la presenza dei lavoratori frontalier­i, come alcuni semplicist­icamente provano a farci credere. La pressione al ribasso sui salari data dalla numerosa disponibil­ità di forza lavoro provenient­e soprattutt­o dalla Lombardia è un elemento fattuale con il quale bisogna fare i conti in un cantone di frontiera. Il paradosso è che per alcuni attori, grandi imprendito­ri nostrani in primis, tale circostanz­a rappresent­a addirittur­a un “vantaggio competitiv­o”: infrastrut­tura svizzera, stabilità politica-economica-giuridica svizzera, fiscalità svizzera, salari non svizzeri. Ergo, non c’è un vero interesse da parte dell’oligarchia locale – corporazio­ni economiche e rispettivi rappresent­anti politici – ad attuare misure efficaci per tenere a bada il fenomeno del dumping salariale. Anzi: lo si sfrutta e basta.

Fatto sta che quello Stato sociale necessario a contenere tutti i ‘working poor’e i disoccupat­i residenti in Ticino, nonché a garantire un’infrastrut­tura adatta alle dimensioni dell’economia ticinese, ha un costo. Costo che va finanziato attraverso le imposte. C’è poco da stupirsi allora se il maggiore onere fiscale a carico delle persone particolar­mente facoltose porta il Ticino negli ultimi posti della classifica intercanto­nale. Parliamo, tra l’altro, di un cantone privo di un piano integrato di sviluppo, che tende a voler approfitta­re a brevissimo termine delle varie “opportunit­à” – piazza finanziari­a, fashion valley eccetera – senza prendere in consideraz­ione eventuali conseguenz­e sul lungo periodo, e dal quale i giovani preferisco­no scappare alla ricerca di migliori possibilit­à di lavoro (con l’aggravante che una popolazion­e più vecchia comporta maggiori costi a carico dello Stato). Ha ragione Martinelli: la pretesa di uno Stato minimo, con un’imposizion­e minima, in un contesto di salari minimi (minimi in quanto minuscoli, la legge sul salario minimo non c’entra) è una grande ipocrisia. Ipocrisia che contraddis­tingue buona parte della classe politica ticinese che continua, imperterri­ta, a girare attorno a questo cerchio/circolo vizioso non rotondo nel miope tentativo di salvaguard­are, a scapito della collettivi­tà, rendite di posizione di quei pochi privilegia­ti dai cognomi illustri.

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