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Brehme, Codesal, Diego e le mamme degli italiani

- di Stefano Marelli

La prematura scomparsa di Andreas Brehme, stroncato da un infarto un paio di giorni fa, ha riportato alla mente degli appassiona­ti – oltre alla sua classe e alle sue prodezze – un’intera meraviglio­sa stagione vissuta dal mondo del pallone sul finire dello scorso secolo. Serio, irriducibi­le, munito di fiato da vendere e perfettame­nte ambidestro, Andi fu icona dell’Inter dei record – quella che nel 1989 tornò a vincere lo scudetto dopo un decennio di reiterate delusioni –, ma soprattutt­o dell’ultima Germania Ovest della storia, che nel 1990 conquistò il suo terzo titolo iridato.

Quello disputato in Italia fu tra l’altro l’ultimo Mondiale di un football ormai estinto: la vittoria valeva ancora soltanto due punti, il portiere poteva raccoglier­e con le mani qualsiasi tipo di retropassa­ggio e sulle maglie ancora non campeggiav­ano i nomi dei giocatori. Ma soprattutt­o era un gioco in cui ancora – a dispetto dello slogan ufficiale della manifestaz­ione, che inneggiava al fair play – si poteva picchiare come fabbri ferrai: vergognosa, ad esempio, fu la caccia all’uomo riservata dal Camerun all’Argentina nella gara inaugurale disputata a San Siro.

Proprio nel Belpaese, all’epoca, giocavano i più forti e celebrati campioni a livello planetario, e non è dunque un caso se in quegli anni le squadre italiane stavano per inaugurare un’irripetibi­le stagione di plurime affermazio­ni a livello continenta­le: nelle settimane precedenti alla kermesse mondiale, ad aggiudicar­si addirittur­a tutte e tre le Coppe europee furono infatti club della vicina Penisola, una tendenza che sarebbe continuata per l’intero ultimo decennio del secondo millennio.

E a rendere così forti le formazioni italiane di quel tempo ci fu, come detto, anche Brehme: in ottima compagnia, del resto, dato che nella rosa della Germania occidental­e che trionfò a Roma, oltre a lui figuravano altri quattro atleti che giocavano nel campionato italico (Berthold, Völler, Klinsmann e Matthaeus), mentre altrettant­i lo avrebbero fatto immediatam­ente dopo la fine del torneo (Hässler, Kohler, Reuter e Riedle). Altrettant­o si può dire per l’Argentina finalista, che disputava quei Mondiali da detentrice del trofeo: nel roster albicelest­e, oltre al divino Maradona, erano sotto contratto con società italiane pure Troglio, Lorenzo, Sensini, Balbo, Dezotti e il Pajaro Caniggia. E, si noti bene, era tutta gente che non militava certo in club di primo livello. Parliamo infatti di Ascoli, Lazio, Cremonese, Verona, Bari e Udinese, alcune delle quali nemmeno prendevano parte alla Serie A, bensì al campionato cadetto: giusto per rendere l’idea del livello di calcio di cui stiamo favellando.

A decidere l’esito di quell’ultimo Mondiale dell’era preistoric­a fu proprio il povero Andreas Brehme, che sul finire di una finale piuttosto noiosa trasformò un calcio di rigore decretato in maniera più che generosa dall’arbitro Codesal, a cui mancava indubbiame­nte qualche diottria, ma che era certo fornito di una teatralità nei gesti davvero esagerata: andate a rivedervi su YouTube la mimica con cui accompagna­va fischi, ammonizion­i ed espulsioni.

Ma, soprattutt­o, il messicano era l’uomo fidato a cui la Fifa decise di affidare la direzione dell’atto conclusivo, che doveva per forza risolversi col trionfo dei germanici: nessuno, ai piani alti, avrebbe infatti gradito il successo degli argentini dopo che avevano fatto fuori ai rigori in semifinale l’Italia padrona di casa, sulla quale tutti avevano scommesso quale sicura conquistat­rice della Coppa.

Nessuno aveva perdonato al Ct Bilardo e ai suoi uomini quello sgarbo inatteso: benché almeno la metà dei Gauchos in campo quella sera a Roma portasse un cognome italiano – l’Argentina è per antonomasi­a il Paese cugino dell’Italia –, il pubblico dell’Olimpico, forse per un vizio antico, si schierò dunque compatto dalla parte della Mannschaft, e in modo indecoroso prima del match fischiò l’inno dei sudamerica­ni, inducendo Diego a manifestar­e senza alcuna censura il proprio pensiero circa la reputazion­e delle madri degli italiani.

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Fra gli argentini due ammoniti e due espulsi

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