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Le memorie di un museo Il Musec di Lugano celebra i cento progetti realizzati dal suo rilancio nel 2005, dal primitivis­mo all’arte contempora­nea

- di Ivo Silvestro

I carri degli dèi erano il numero cento: il progetto dedicato alle divinità indiane che, nel corso di una grande cerimonia, escono dai templi per incontrare i devoti, un lavoro di ricerca durato oltre un decennio e arrivato a un’esposizion­e ancora per qualche settimana allo Spazio Cielo di Villa Malpensata, è il centesimo progetto realizzato dal Musec, il Museo delle Culture di Lugano, dal suo rilancio avvenuto nel 2005.

Il traguardo dei cento progetti in poco meno di vent’anni va sottolinea­to, ma l’incontro di ieri con la stampa e gli amici del Musec non è stato – o almeno non troppo – occasione di autocelebr­azioni. Piuttosto, è stato un momento dedicato alla memoria. La scelta della parola non è casuale: nei loro interventi sia il direttore del museo Francesco Paolo Campione sia il presidente della fondazione, nonché vicesindac­o di Lugano, Roberto Badaracco hanno ripercorso la storia del Musec, iniziata con la donazione della collezione di “arte primitiva” dell’artista Serge Brignoni nel 1985, ma non con l’idea di ripercorre­re il passato – e magari togliersi qualche sassolino dalla scarpa pensando a chi, negli anni della crisi, proponeva di chiudere tutto e cedere i reperti al Musée du quai Branly di Parigi –, ma per raccontare che cosa è oggi il Museo delle Culture e, più in generale, che cosa fa un museo oggi.

La costruzion­e di un’identità

Che cosa ha fatto il Musec in questi diciannove anni e cento progetti (che si sono concretizz­ati in 145 mostre)? Come ha spiegato Roberto Badaracco, ha saputo costruirsi un’identità forte riuscendo a farla conoscere sia a livello locale sia a livello nazionale e internazio­nale, sapendo andare al di là della semplice definizion­e di “arte etnica” che rischia di far sempliceme­nte pensare alla conservazi­one di strani oggetti appartenen­ti a popoli a noi alieni. È partendo da questa identità che è stato possibile realizzare le numerose collaboraz­ioni con altre istituzion­i e, soprattutt­o, con i collezioni­sti che, dopo l’avvio con Serge Brignoni, hanno visto nel Musec un’opportunit­à per dare valore alle proprie collezioni.

Oggi i musei sono chiamati a fare di tutto e il Musec, ha spiegato il direttore Campione, si è mosso principalm­ente su quattro fronti: il primo, lungo il sentiero tracciato da Brignoni, è il primitivis­mo nell’arte delle Avanguardi­e del Novecento; legato al primitivis­mo c’è l’importante lavoro sull’arte e la creatività infantili e il loro ruolo nella storia dell’umanità; abbiamo poi la fotografia dell’esotismo che negli anni ha visto la costruzion­e, grazie a un paziente lavoro d’archivio, di un patrimonio di importanza internazio­nale; e infine l’arte contempora­nea sulla quale vale la pena spendere qualche parola a parte.

Perché un museo “delle culture” dovrebbe occuparsi di qualcosa che, ragionando su una rigida divisione dei compiti, spetterebb­e ai musei “d’arte moderna e contempora­nea”, senza dimenticar­e le gallerie? È una questione di metodo: un museo non si limita a esporre delle opere ma fa un lavoro di ricerca, di analisi, di contestual­izzazione; e nel farlo un museo delle culture ha gli strumenti dell’antropolog­ia che permettono di guardare alle opere da una pluralità di punti di vista che è difficile trovare altrove. E qui va ricordato che i cento progetti di cui si parla sono tutti realizzati “di prima mano” dal Musec, frutto di un lavoro di ricerca che richiede anni e talvolta anche decenni, come la mostra sull’India curata da Giulia Bellentani ricordata all’inizio.

Custodi della memoria del mondo

I musei si occupano di memoria. Ogni progetto curato dal Musec è, come ha sottolinea­to il direttore Campione, «un pezzo di memoria del mondo che è nostro dovere morale conservare. Perché oggi quella memoria viene drammatica­mente cancellata dall’affermarsi di una cultura globalizza­ta e di un pensiero unico che mescola tutto quello che è passato: gli archivi conservati nei musei del mondo un giorno serviranno all’umanità per riappropri­arsi della consapevol­ezza della propria storia».

Pensando al futuro

L’identità che il Musec si è costruito si regge su diversi equilibri. Il fulcro di questo delicato meccanismo è rappresent­ato dal direttore e in proposito è significat­ivo un piccolo lapsus del presidente della fondazione Roberto Badaracco: ricordando il rilancio avvenuto all’inizio degli anni Duemila, gli è sfuggito un «Paolo Campione nominato museo». Certo è la semplice assenza di “direttore del”, anche ai migliori oratori capita di mangiarsi qualche parola, e al di là del suo direttore il Musec può contare su numerose competenze che negli anni ha saputo formare e attrarre. Ma resta il fatto che il legame tra l’istituzion­e e il suo direttore è molto più forte che in altri musei, con tutti i vantaggi e gli svantaggi che una simile identifica­zione comporta. I vantaggi, sia chiaro, finora hanno superato – e di gran lunga – gli svantaggi; tuttavia è anche giusto chiedersi come sarà percepito un cambiament­o di direzione che prima o poi avverrà. Del resto i musei – lo ha ricordato lo stesso Campione – ragionano sui tempi lunghi dei secoli e dei millenni, ben al di là quindi dell’orizzonte di attività di una singola persona.

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TI-PRESS Cento progetti (e 149 mostre) in diciannove­anni
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FCM/MUSEC I carri deglidèi
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TI-PRESS Il direttorCa­mpione

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