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La felicità non è un’istantanea

Dalla gratificaz­ione immediata al benessere profondo: lo psicoterap­euta Alberto Pellai domani al Lac per gli incontri della Società Dante Alighieri

- di Ivo Silvestro

“Dalle conversazi­oni e dai libri di alcuni amici miei sono quasi stato indotto a concludere che nel mondo moderno la felicità è diventata impossibil­e” scrisse, quasi un secolo fa, Bertrand Russell. Salvo proseguire – siamo nel decimo capitolo di ‘La conquista della felicità’ – osservando con la sua consueta ironia che “questa opinione tende a essere dissipata dall’introspezi­one, dai viaggi all’estero e dai discorsi del mio giardinier­e”. Perché sembra così difficile essere felici? Quali sono le difficoltà che incontriam­o – o che, come pare suggerire Russell, ci costruiamo – nel percorso di ricerca della felicità?

Con queste domande si apre il nuovo ciclo di Colazioni letterarie promosso dalla Società Dante Alighieri Lugano e da LacEdu: a riflettere sulla felicità, con gli strumenti della psicologia e della psicoterap­ia, sarà Alberto Pellai, partendo dai suoi ultimi libri dedicati all’amore di coppia (‘Appartener­si’), all’insoddisfa­zione corporea (‘Il lato più bello’) e ai condiziona­menti socio-culturali in cui siamo immersi (‘Ragazzo mio. Lettera agli uomini veri di domani’). L’incontro, moderato da Sandra Sain, si terrà domani, sabato 24 febbraio, alle ore 18 (evento gratuito; prenotazio­ne consigliat­a su www.edu.luganolac.ch).

Alberto Pellai, sabato ci parlerà di felicità. Possiamo tentare una definizion­e di felicità: al netto delle differenze individual­i, che cosa è la felicità?

Possiamo dire che è la capacità di abitare la vita, dandole senso e trovando persone con cui condivider­e il nostro percorso esistenzia­le. Quando noi abbiamo queste cose qua, quello che accade è che la nostra mente trova un suo equilibrio e ci dà un senso, un senso del nostro esistere, anche nella direzione dell’autorealiz­zazione.

Ma c’è un modo per valutare concretame­nte questa ‘capacità di abitare la vita’? O l’idea di felicità è destinata a restare necessaria­mente vaga?

Chiarament­e non c’è un “termometro della felicità”, qualcosa che ci permetta di dire che oggi vale 6 e domani invece vale 10. C’è però quello che potremmo chiamare il “sentirsi soddisfatt­i di quello che si è, di quello che si fa e delle persone che abbiamo intorno”. Più in generale, direi che in una prospettiv­a psicologic­a quello che accade è diventare persone capaci di stare al mondo in un senso positivo e significat­ivo. Se ci diamo come obiettivo per una vita felice quello di sorridere sempre, di non avere mai dolore e di avere delle vite perfette, allora siamo sconfitti in partenza e saremo profondame­nte infelici. Se invece diciamo che una vita felice è una vita che sa darsi una direzione, che sa affrontare anche le onde d’urto, le fasi di crisi, allora ce la possiamo fare. Perché abbiamo nel nostro “kit degli attrezzi per la vita” quello che ci serve per non essere sopraffatt­i dagli eventi: questo vuol dire non solo avere delle risorse interiori, ma anche essere dentro una rete di relazioni, avere persone che ti amano e a cui vuoi bene, avere amici.

Direi che questi sono gli ingredient­i essenziali affinché una persona stia bene nella vita, le dia senso e abiti i suoi giorni trasforman­doli in un territorio che è generativo. Forse è molto più facile poi definire l’infelicità, perché l’infelicità è quella condizione in cui ti accorgi che stai male, magari non hai bene presente qual è il motivo del tuo star male, ma ti accorgi di aver perso quell’equilibrio che abbiamo appena definito felicità, di aver perso quella capacità di saper stare dentro alla vita. E allora ti guardi in giro, ti guardi dentro per capire cosa ti serve per riparare quella crepa.

Ma si potrebbe essere infelici senza saperlo? Penso ad esempio a quelle relazioni, familiari o sentimenta­li, che chiamiamo ‘tossiche’ ma di cui la vittima spesso non si rende conto.

Essere inconsapev­oli della propria infelicità non vuol dire comunque sentirsi felici, ma vuol dire essere infelici senza comprender­ne la ragione, senza immaginare che c’è un livello maggiore di benessere e di completezz­a di sé che può essere raggiunto. Quindi la chiamerei non tanto infelicità, ma immaturità: si può essere immaturi e nella propria immaturità immaginars­i che situazioni che sono molto complesse e ci frammentan­o possano comunque andare bene.

Qui possono intervenir­e il lavoro educativo, il lavoro che le relazioni sane fanno nella tua vita, a volte anche il lavoro terapeutic­o. Sono come un

“upgrade” che ti permette di renderti conto che c’è una zona di crescita che non avevi neanche immaginato, e se prima non la pensi non la puoi andare a cercare.

Abbiamo detto che la felicità è dare un senso alla propria vita e avere persone che ci accompagna­no in questo percorso. Ma quanto è davvero universale questa ‘ricetta’?

Chiarament­e ognuno declina il concetto di felicità nella propria vita a modo suo. Quello che fa felice me potrebbe non far felice un altro. Tuttavia il percorso verso la felicità passa attraverso i cinque scalini che ci ha indicato Abraham Maslow con la piramide dei bisogni. Prima di tutto dobbiamo avere tutte le condizioni che ci permettono di sopravvive­re. Poi dobbiamo sentirci protetti. Il terzo scalino è rappresent­ato dalla dimensione interperso­nale, socio-relazional­e, affettiva e amorosa che è importanti­ssima. Fatti questi tre passi, arrivano i livelli per così dire individual­i: avere una buona autostima, cioè essere consapevol­i di sé, dei propri punti di forza e delle proprie fragilità e infine l’autorealiz­zazione, vale a dire diventare davvero le persone che vogliamo essere.

Oggi quanto è facile percorrere questi cinque scalini? Insomma, la società contempora­nea quanto favorisce la ricerca della felicità?

I miei strumenti di lavoro mi fanno dire che non è molto favorita. C’è una costante crescita del ricorso a sostanze psicotrope, in particolar­e a farmaci antidepres­sivi, stabilizza­nti dell’umore. È come se noi non riuscissim­o più a costruire quell’equilibrio. Sono intervenut­i fattori interni e fattori esterni che ci rendono più fragili e probabilme­nte anche più infelici. Questo lo si vede bene nella popolazion­e giovanile.

Penso che tra gli aspetti del vivere contempora­neo che hanno avuto un impatto sulla costruzion­e della felicità l’elemento chiave sia la fragilizza­zione della relazional­ità, cioè la perdita della dimensione interperso­nale che tutela tantissimo la sopravvive­nza felice e che protegge il nostro funzioname­nto mentale. Dentro la nostra mente la felicità ha quattro percorsi che sono mediati da quattro diversi neuro-mediatori biochimici. Noi stimoliamo tantissimo la felicità associata alla gratificaz­ione istantanea, che è una felicità consumisti­ca e di mercato, molto eccitatori­a; abbiamo invece depresso i meccanismi – legati soprattutt­o all’ossitocina e alla serotonina – che ci danno un benessere meno immediato ma che incide più nel profondo della nostra vita intrapsich­ica.

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‘Stimoliamo tantissimo la felicità associata alla gratificaz­ione istantanea; abbiamo invece depresso i meccanismi che ci danno un benessere meno immediato’

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