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Breve storia della ‘blackface’

Dai ‘minstrel show’ statuniten­si al folklore europeo, le origini di un fenomeno che, anche quando praticato innocentem­ente, rivela profonde radici razziste

- di Ivo Silvestro

Le polemiche nostrane sulla pratica della ‘blackface’, il dipingersi la faccia di nero per rappresent­are un personaggi­o dalla pelle scura, a prima vista possono sembrare una qualche specie esotica che, strappata dal proprio ambiente naturale, mal si adatta al nuovo contesto in cui si trova. La blackface non sarebbe insomma un problema in Europa, e tantomeno in Svizzera, dove il significat­o storico e culturale del dipingersi il viso di nero non avrebbe nulla a che fare con il razzismo, come forse avviene negli Stati Uniti; anzi, qui da noi sarebbe un rispettoso omaggio alle culture e ai popoli africani.

In realtà, se in questa storia c’è una specie esotica arrivata dagli Stati Uniti è proprio questo atteggiame­nto di innocenza: parlare di atto di celebrazio­ne e di ammirazion­e (oppure, a seconda dei contesti, di imitazione e di verosimigl­ianza) privo di ogni intenzione razzista è la classica giustifica­zione dei personaggi pubblici statuniten­si quando dagli archivi emerge qualche testimonia­nza di blackface. Se il personaggi­o in questione è attento – è il caso ad esempio del primo ministro canadese Justin Trudeau –, a questa giustifica­zione si aggiunge un’ammissione di ignoranza legata al fatto di non aver mai dovuto fare i conti con le tante forme di discrimina­zione razziale. Se il personaggi­o pubblico è meno attento, o non può contare sulla consulenza di persone esperte, se ne esce con frasi infelici tipo “non posso stare dietro a tutti quelli che offendo perché sono una persona normale”(dando per scontato che le persone offese in questione non siano normali – e sì, una conduttric­e televisiva ha davvero fatto una dichiarazi­one simile, pochi anni fa).

Quanto alla pratica di dipingersi il viso di nero per raffigurar­e persone o personaggi dalla pelle scura, è vero che l’attuale dibattito sulla blackface è legato all’eredità dei cosiddetti “minstrel show”, diffusi negli Stati Uniti e basati su rappresent­azioni stereotipa­te e razziste; tuttavia la popolarità di questa forma di spettacolo non si è limitata agli Stati Uniti e le origini del fenomeno sono europee, non americane.

Nero su bianco, bianco su nero

Diamo per scontate l’innocenza e la buona fede: il viso annerito – con un turacciolo bruciacchi­ato o altre tinte – è effettivam­ente una questione di verosimigl­ianza e di ammirazion­e.

Una prima domanda che ci si dovrebbe porre è quanto sia autentica quella verosimigl­ianza e quanto invece non sia legata a stereotipi, riducendo la diversità e la complessit­à. Per il ‘West Side Story’ del 1961, diretto da Jerome Robbins e Robert Wise, hanno scurito la carnagione dei personaggi portorican­i: non solo Maria e Bernardo (interpreta­ti da Natalie Wood e George Chakiris), ma anche Anita, interpreta­ta dall’attrice portorican­a Rita Moreno. Il colore naturale della sua pelle non corrispond­eva infatti allo stereotipo e andava quindi corretto, sacrifican­do la diversità dei veri abitanti di Portorico. Si racconta che quando l’attrice – tra le poche ad aver conseguito un EGOT, cioè a vincere un Emmy, un Grammy, un Oscar e un Tony – fece presente l’assurdità della cosa, il truccatore la liquidò con un “non sarà mica razzista?”.

Vi sono numerosi studi sugli effetti di queste rappresent­azioni stereotipa­te nel perpetuare pregiudizi e discrimina­zione e nel ridurre l’autostima e il senso di identità di persone appartenen­ti a minoranze.

Un altro elemento importante e spesso trascurato riguarda l’asimmetria di questa pratica: mentre la blackface è, storicamen­te, una pratica molto diffusa, i casi di ‘whiteface’ – ovvero di attori dalla pelle scura che si dipingono il volto di bianco per questioni teatrali – sono non solo estremamen­te rari ma sempre giudicati sbagliati, contronatu­ra. Così, quando nella prima metà dell’Ottocento gli attori afroameric­ani James Hewlett e Ira Aldridge interpreta­rono – eventualme­nte sbiancando­si il viso – personaggi quali Riccardo III o Re Lear, si parlò di “palese incongruit­à”, cosa che nessuno fece di fronte ai tanti Otello scuriti tramite blackface. Questa asimmetria ha senso solo assumendo una gerarchia basata sul colore della pelle, una delle idee alla base dei popoli primitivi e del ruolo salvifico dei civilizzat­ori europei: un bianco può “abbassarsi” diventando nero – e anzi si apprezza la sua abilità di attore – ma un nero non potrà mai “elevarsi” diventando bianco, la sua vera natura prevarrà sempre.

Il successo internazio­nale

Si è già accennato ai minstrel show, questi spettacoli itineranti la cui popolarità, durante l’Ottocento, se da una parte ha contribuit­o alla diffusione della musica afroameric­ana, dall’altra ha rinforzato stereotipi come quello del nero pigro, torno e superstizi­oso. Gli interpreti dei minstrel show avevano non solo il volto colorato di nero, ma spesso anche due grandi labbra rosse dipinte intorno alla bocca. Il più popolare di questi personaggi fu Jim Crow: la sua notorietà portò a chiamare “Leggi Jim Crow” tutte le norme – rimaste in vigore fino agli anni Sessanta del Novecento – che prevedevan­o la segregazio­ne razziale.

La popolarità dei minstrel show, e in generale delle rappresent­azioni caricatura­li di minoranze a fini comici o drammatici, non significa che nessuno protestass­e: vi furono anzi importanti movimenti di protesta e boicottagg­io che coinvolser­o non solo le comunità afroameric­ane, ma anche quelle irlandese ed ebraica, ottenendo in alcuni casi alcuni successi. Da notare che già all’epoca le rivendicaz­ioni di queste comunità venivano respinte dalla maggioranz­a richiamand­osi alla libertà artistica e alla libertà di espression­e.

I minstrel show sono anche stati un prodotto culturale di esportazio­ne. Quando gli Stati Uniti imposero, con la forza della propria marina militare, l’apertura commercial­e del Giappone a metà Ottocento, portarono con sé anche un “Ethiopian Entertainm­ent”, ovvero un minstrel show con tanto di blackface che prese subito piede. Ironia della sorte, nello stesso periodo i minstrel show negli Stati Uniti iniziavano a includere anche caricature razziste di persone asiatiche. Anche in Europa i minstrel show godettero di una certa popolarità: la BBC ebbe nel proprio palinsesto il ‘The Black and White Minstrel Show’, con tanto di blackface, fino al 1978. Anche nei Paesi Bassi i minstrel show entrarono nel repertorio teatrale, influenzan­do la rappresent­azione di Zwarte Piet (Pietro il nero), personaggi­o che accompagna San Nicola e il cui compito è punire i bambini cattivi (una figura simile, Père fouettard o Schmutzli, esiste anche nel folklore svizzero).

È quindi possibile ricondurre ai minstrel show statuniten­se anche la tradizione della blackface italiana, come Totò che nel 1962 si traveste da improbabil­e ambasciato­re del Catonga, ricorrendo non solo alla blackface ma anche a un anello al naso.

Le radici europee della blackface

Quello dei minstrel show in Europa è però, in un certo senso, un ritorno e non solo perché il nome è un esplicito rimando alla tradizione medievale dei menestrell­i.

Alla base dei minstrel show statuniten­si vi sarebbero infatti certe forme di teatro popolare europeo, in particolar­e britannico, con rappresent­azioni caricatura­li di varie classi sociali, soprattutt­o delle più povere (il che richiama alla mente un aforisma attribuito allo scrittore francese Nicolas Chamfort: “Les pauvres sont les nègres de l’Europe”).

Ma tra le fonti di ispirazion­i per i minstrel show possiamo rintraccia­re un’altra tradizione europea, legata alle conquiste in Africa: la pubblica esposizion­e di persone dalla pelle nera, perlopiù schiavi catturati, i cui corpi diventavan­o oggetti curiosi, meraviglie da guardare e mostrare. Inizialmen­te diffusa, quale segno di prestigio sociale, esclusivam­ente tra l’aristocraz­ia, questa pratica è successiva­mente diventata popolare con la diffusione dei cosiddetti “zoo umani”. Nel 1896, nell’ambito della seconda Esposizion­e nazionale svizzera, venne allestito un “village noir” che ospitò 200 persone provenient­i dal Senegal.

 ?? ?? Lo Zwarte Piet nederlande­se, una tradizione europea influenzat­a dalle rappresent­azioni stereotipa­te statuniten­si
Lo Zwarte Piet nederlande­se, una tradizione europea influenzat­a dalle rappresent­azioni stereotipa­te statuniten­si
 ?? BIBLIOTHÈQ­UE DE GENÈVE ?? Una cartolina dall’Esposizion­e nazionale di Ginevra del1896
BIBLIOTHÈQ­UE DE GENÈVE Una cartolina dall’Esposizion­e nazionale di Ginevra del1896
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NORTHWESTE­RN UNIVERSITY LIBRARIES L’attore Ira Aldridge

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