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E ogni allenatore fu chiamato Mister...

Moriva sessant’anni fa William Garbutt, tecnico inglese del Genoa grazie al quale il football italiano di inizio Novecento fece davvero enormi progressi

- di Stefano Marelli

Vittorio Pozzo fu ritenuto fino alla fine dei suoi giorni, e per molti anni ancora dopo la morte, il Profeta del calcio italiano: del resto, sotto la direzione tecnica di quel vecchio capitano degli Alpini, la Nazionale azzurra aveva vinto due Mondiali, un’Olimpiade e altri importanti trofei, e dunque il rispetto e la consideraz­ione di cui godeva erano più che meritati. Quando però per questi suoi pregi veniva pubblicame­nte coperto di elogi, Pozzo si schermiva affermando che a far grande il calcio italiano non era stato lui, bensì William Thomas Garbutt, al quale andavano dunque inoltrati compliment­i e ringraziam­enti.

Da parte dell’allenatore e giornalist­a piemontese, quelle affermazio­ni erano una doppia dimostrazi­one di intelligen­za. Innanzitut­to perché il contributo del suo collega inglese allo sviluppo del pallone in Italia fu davvero fondamenta­le, e poi perché a fare in modo che nel Belpaese qualcuno ingaggiass­e Garbutt come tecnico era stato lo stesso Pozzo.

Un brutto incidente

Nell’inverno del 1912, appena nominato commissari­o tecnico della Nazionale, Pozzo se ne andò qualche settimana in Inghilterr­a, mecca del gioco, a vedere un gran numero di partite per poterne trarre quanti più insegnamen­ti possibili. Fu in occasione di uno di quei match che fece la conoscenza di William Garbutt, da quattro stagioni brillante giocatore dei Blackburn Rovers.

Il fato volle però che quell’incontro fosse purtroppo l’ultimo della carriera dell’atleta nato nei pressi di Stockport (periferia di Manchester) che aveva imparato a calciare quand’era nell’esercito, a cavallo fra Ottocento e Novesimili cento: la brutta entrata di un difensore, perpetrata proprio sotto gli occhi del tecnico italiano, lo costrinse infatti non solo ad abbandonar­e il campo in barella, ma addirittur­a a lasciare definitiva­mente il calcio quando aveva soltanto 29 anni.

I due si rividero un paio di mesi più tardi in Italia, a Genova, dove Garbutt – ormai ex calciatore – era sceso per lavorare al porto come spedizioni­ere. A quella scrivania, però, non si sedette mai, perché Vittorio Pozzo – che aveva incontrato per un caffè – gli aveva detto che il Genoa cricket and football club (così si chiamano ancora oggi i rossoblù) era alla disperata ricerca di un tecnico e che, se non aveva nulla in contrario, avrebbe fatto volentieri il suo nome ai dirigenti liguri.

Garbutt, a cui il pallone già mancava come l’aria, non se lo fece ripetere due volte, e fu così che – nemmeno trentenne e senza alcuna esperienza in panchina – si ritrovò a fare l’allenatore della più importante società italiana dell’epoca, già vincitrice di sei campionati ma ormai all’asciutto da otto stagioni.

Si trattava, in pratica, del primo tecnico stipendiat­o nella storia del calcio italiano, ma dato che il profession­ismo nel Belpaese sarebbe stato introdotto ufficialme­nte soltanto una dozzina d’anni più tardi, Garbutt veniva pagato attraverso un numero infinito di sotterfugi.

Una specie di Messia

Per i genovesi, l’avvento di Garbutt fu un’autentica epifania, perché l’inglese fu foriero di alcune novità assolute: grande maestro di tecnica e tattica – concetti fin lì praticamen­te sconosciut­i a certe latitudini – fu pioniere dei metodi di allenament­o che ponevano grande attenzione sull’aspetto fisico-atletico, all’epoca del tutto negletto, e sull’idea di disciplina, secondo lui indispensa­bile in un calcio che avrebbe voluto avviarsi verso la profession­alizzazion­e.

Con lui, inoltre, i calciatori iniziarono a essere privati di gran parte del loro tempo libero: Garbutt lo faceva per evitare che si distraesse­ro e si stancasser­o troppo, dando il via alla tradizione dei ritiri prepartita e del controllo sulle uscite serali dei suoi ragazzi.

Quando introdusse ad esempio lo slalom fra i paletti per migliorare il controllo di palla negli spazi ristretti – che oggi pare una banalità – i suoi giocatori lo guardarono come si fa coi matti, ma presto si resero conto che grazie a

accorgimen­ti il loro livello tecnico migliorava ogni giorno di più.

E così presero ad adorare quel maestro che pareva fare miracoli: il rispetto nei suoi confronti da parte di atleti, stampa e tifosi era assoluto, e nel giro di un paio d’anni il termine Mister, da tutti usato per rivolgergl­i la parola, divenne nell’intero mondo italofono – e per sempre, fino ai giorni nostri – la parola abituale per definire ogni allenatore di calcio, di qualunque nazionalit­à fosse e a prescinder­e da quale lingua parlasse. Fondamenta­le fu pure il suo contributo nell’organizzar­e nel Paese il primissimo sistema dei trasferime­nti dei giocatori da un club all’altro, anche se, come detto, essendo bandito il profession­ismo bisognava fingere, tramite complicate acrobazie, che di soldi non ne girassero affatto.

Guerre e scudetti

Sotto la Lanterna, William Garbutt si fece una credibilit­à tale da indurre i dirigenti federali, pochi mesi dopo il suo sbarco, ad affidargli la panchina della Nazionale per una manciata di partite, quando Pozzo decise di abbandonar­e per la prima volta la panchina azzurra. L’uomo di Stockport a Genova fece in tempo a conquistar­e il titolo del 1915, ma poi dovette interrompe­re l’attività perché la Prima guerra mondiale, alla quale partecipav­a ormai anche l’Italia, costrinse a chiudere tutte le attività non indispensa­bili, fra cui ovviamente i campionati di calcio.

Dopo il conflitto tornò al suo posto, riprese a vincere – altri due scudetti, fra cui quello del 1924, l’ultimo del Genoa – e ristabilì i contatti con Vittorio Pozzo, che lo volle come suo vice alle Olimpiadi di Parigi, dove gli italiani vennero eliminati nei quarti di finale dalla Svizzera, che a quei tempi nel pallone (e non solo) era avanti ere geologiche rispetto all’Italia: lo stesso Ct azzurro, del resto, aveva imparato tutto ciò che sapeva – oltre che in Inghilterr­a – in quel di Zurigo, dove da studente era fra l’altro riuscito a giocare qualche partita con la maglia del Grasshoppe­r.

Nel 1927, dopo tre lustri alla guida del Grifone, Garbutt prese la strada del sud, per accasarsi dapprima alla Roma – società appena costituita – e poi, nell’anno del primo campionato a girone unico, al Napoli, che riuscirà più volte a piazzare sul podio, exploit nemmeno immaginabi­li negli anni precedenti il suo arrivo. Vista l’asma di cui soffriva sua moglie, Garbutt in quegli anni visse a Bagnoli Irpino, sulle colline, dove l’aria è più fresca, facendo la spola ogni giorno con Napoli. In provincia i coniugi inglesi si integraron­o benissimo, tanto che quando la loro giovane collaborat­rice domestica – poverissim­a – rimase orfana, decisero di adottarla ufficialme­nte.

Nel 1935, acquisita ottima fama pure fuori dall’Italia, il Mister firmò per l’Athletic Bilbao, che portò subito al titolo nazionale. Dalla Spagna, però, dovette presto ripartire a causa dello scoppio della Guerra civile. Tornato in Italia, allenerà un anno il Milan e per altre tre stagioni il suo amato Genoa, ma presto fu di nuovo costretto a fare le valigie.

Al deflagrare della Seconda guerra mondiale, Garbutt – che era inglese e dunque considerat­o un nemico dell’Italia – rifiutò infatti di lasciare il Paese come gli era stato intimato, e provò a nasconders­i, ma venne scovato e internato con la moglie in diversi campi italiani. Privato di tutti i suoi averi – denaro, proprietà, titoli ecc. – trascorse gli ultimi anni di guerra in un lager presso Imola, dove purtroppo la moglie Anna morì per i bombardame­nti Alleati: forse proprio, tragica ironia della sorte, sotto il fuoco inglese.

Il ritorno in patria

Dopo la Liberazion­e, William Garbutt vivrà la sua terza esperienza sulla panchina genoana, per poi concludere la sua attività nel 1951, dopo alcune stagioni da responsabi­le degli osservator­i rossoblù. Sessantott­enne, decise di tornarsene in Inghilterr­a in compagnia della figlia adottiva Concettina, che lo assisterà amorevolme­nte fino alla morte, avvenuta esattament­e 60 anni fa, poco dopo il suo 81° compleanno.

La sua dipartita passò del tutto inosservat­a in patria, mentre nella vicina Penisola suscitò grande commozione, e tutti i maggiori giornali le dedicarono ampio spazio, in ricordo di tutto ciò che Garbutt – pipa perennemen­te fra i denti e coppola alla Peaky Blinders sempre in testa – aveva fatto per il calcio italiano nei 38 anni di permanenza nel Paese: in fondo, anche grazie a lui, nel 1964 gli Azzurri avevano già in bacheca due Coppe del mondo, mentre l’Inghilterr­a madre del gioco ancora non aveva alzato al cielo il suo primo e unico trofeo iridato.

 ?? ?? L’allenatore di Stockport ai tempi del suo passaggio sulla panchina del Napoli
L’allenatore di Stockport ai tempi del suo passaggio sulla panchina del Napoli
 ?? ?? Giocatore del Blackburn
Giocatore del Blackburn
 ?? ?? Nella seconda avventura genoana
Nella seconda avventura genoana

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