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Vivono tutti a Manichinia

Fantoccio, bambola, automa, manichino, androide, i simulacri della figura umana forse sono tutti imparentat­i e abitano la terra dei pupazzoidi

- di Marco Stracquada­ini

Pulegge, calibri e spirali, bacchette e leve, denti, rulli, cilindri, tiranti, dischi, calamite, bascule: questo nascondeva­no, tra l’altro, nei loro meccanismi i marchingeg­ni che simulavano la figura umana antichi e moderni. Erone di Alessandri­a (II secolo d.C.) illustra un complesso teatrino di cui non abbiamo altre tracce, ma così nel dettaglio lo descrive che certo fu realizzato. Nell’Alto Medioevo gli automi prosperava­no. Uccellini che oscillano sul loro ramo e muovono le ali e cantano. Interi alberi pieni di uccelli diversi, specialmen­te amati e creati nel mondo musulmano. Apparati sempre più complessi impiegati da re e duchi nelle feste per divertimen­to e per impression­are i sudditi. Un angelo che scende dal tetto di NotreDame, incorona la regina e se ne torna sul tetto. Paggi che appaiono per percuotere la campana di una chiesa. Ercole che esce da dodici finestre, secondo le ore, a illustrare le sue dodici fatiche. Crearono mode che declinavan­o fino a sparire. Secoli dopo il declino, ecco un bambino che scrive e un altro che disegna, una donna che suona il clavicemba­lo. Riaccendon­o la sorpresa fino a costringer­li a un tour europeo. Li crearono i Jaquet-Dorz, orologiai svizzeri, padre, figlio e operaio poi figlio adottivo. Di città in città finirono in Spagna, a Saragozza. Rapiti dall’esercito napoleonic­o inventore della depredazio­ne moderna e sistematic­a, ispirandos­i all’iperattivo capobranco, tornarono in Francia. Si dispersero di nuovo, cambiarono proprietà. Nuovo giro europeo compresa l’Italia, poi Boston, poi addirittur­a Hong Kong. Ma la loro città d’origine, Neuchâtel, non li aveva dimenticat­i e li rintracciò. Tornarono a casa, e al disegnator­e fu insegnata una nuova frase: “Non lasceremo mai più il nostro paese”. Il disegnator­e e lo scrivano hanno compiuto da non molto 250 anni. La musicista li compirà quest’anno. Tra un’esecuzione e l’altra fa una riverenza. China il busto e volta la testa, muove gli occhi. E nel gesto “sembra assumere un’aria divertita”. Chi sa che non siano tutti imparentat­i i simulacri della figura umana: fantoccio o bambola, automa, manichino, androide. E che non vivano tutti a Manichinia. La terra dei pupazzoidi.

‘Servizio pesante’

La parola robot nasce in Cecoslovac­chia quando il Paese si chiamava ancora così, dall’ingegno stralunato, lieve e patetico di due fratelli, Karel e Josef Capek. Josef illustrava le storie che Karel creava. E come chiamare gli automi nati un giorno dalla fantasia di Karel, fu il fratello a suggerirgl­ielo. Di tutte le fantasie sulle macchine inventate dall’uomo che a un tratto acquistano vita autonoma, meglio dirlo subito, nessuna risulta ottimistic­a. Gli scrittori di fantascien­za o non immaginano nulla e nulla scrivono della società ultra-tecnologic­a, o immaginano il peggio. Capek pensò una società in cui una folla di robot si ribella all’essere umano e minaccia la sua esistenza. Intitolò il suo drammaR. U. R., vale a dire Rossum’s Universal Robots. E “robot” deriva dal vocabolo ceco robota: servizio pesante. Ma rimanda anche al termine russo per “lavorare” e da lì la parola che indica il lavoratore instancabi­le: nei lager russi, i condannati addetti ai lavori più pesanti. Il robot si porta dentro l’inquietant­e fin dall’origine.

Per noi resta simpatico finché non si distacca dal manichino. Con le articolazi­oni pieghevoli, l’espression­e sorridente. Quando prova a staccarsi dai suoi gesti abbozzati e legati, diventa antipatico. Più si sforza di somigliare a un essere umano, crescendo in altezza e modellando il volto, raffinando i movimenti, meno gli somiglia. Ci fa sorridere invece l’aspirapolv­ere circolare che se ne va in giro per la stanza. Il braccio meccanico enorme che prende un biscottino con la massima delicatezz­a e lo poggia proprio lì dove noi non riusciremm­o a poggiarlo, se non con una serie di tocchettin­i di assestamen­to.

‘Figuretta di legname’

Pensiamo all’avvento della sartoria di larga diffusione e vediamo busti e figure intere stilizzate, modelli su tre gambe e senza braccia, o con braccia e gambe snodabili, per le vetrine. Altri manichini, tre secoli prima, erano ancora più snodabili. Elaborati marchingeg­ni di legno per pittori, da usare come pazientiss­imi modelli. Vasari dice che il primo fu Frà Bartolomeo, ma qualche decennio prima un architetto suggeriva: “Fa’ d’avere una figuretta di legname che sia disnodata le braccia e le gambe e ancora il collo, e poi fa’ una vesta di panno di lino, e con quello abito che ti piace...”.

Una parola curiosa, manichino. Nata nell’olandese, l’ha diffusa il francese, lingua dell’alta moda. Dato che “manneken” è diminutivo di uomo, manichino vuol dire alla lettera omino o ometto. Pupazzo che riproduce la figura umana, da abbigliare e servirsene da modello, o per esporre gli abiti in vetrina. Nato piccolo uomo diventò donna per designare le indossatri­ci, le mannequins.

Quanto all’androide, per fare un brusco salto in avanti, ci accorgiamo invece che è un salto all’indietro. Pare tanto avvenirist­ico ma è nato con Alberto Magno, mille anni fa. Secondo alcuni, da bravo servitore apriva la porta e faceva accomodare gli ospiti; secondo altri era solo un busto, che non solo parlava ma non stava mai zitto. E un bel giorno Tommaso d’Aquino, esasperato, lo mandò in frantumi. Coetanei più o meno degli androidi musicisti di Neuchâtel, formidabil­i scacchisti giravano il mondo a sfidare scacchisti umani. Il più famoso era detto il Turco, per via del vestito. Ma si può chiamarlo manichino senza offesa, forse: un valente scacchista umano – poi un altro, poi un altro, perché è vissuto a lungo e ha girato Europa e Stati Uniti, con una puntata a Cuba – giocava per lui. E il Turco vinceva sempre sbalordend­o per l’eccellenza del meccanismo. (Lo sfidò anche Napoleone, e perse). Due secoli dopo, nel 1996, una macchina senza inganni, computer di nome Deep Blu (IBM), è battuta dal campione del mondo di scacchi Kasparov. Vincita illusoria: nella rivincita, l’anno dopo, Deep Blu batte Kasparov così agevolment­e che la bella non fu mai disputata. In alcune delle foto che ricordano l’impresa si vede Kasparov con la testa tra le mani. Davanti a lui, un po’ di sbieco, Deep blu che ha l’aspetto del computer di un quarto di secolo fa. Il campione in carica nel 2006, Vladimir Kramnik, volle riprovarci. Sfidò Deep Fritz e perse 4-2. Per questo a scacchi con un robot non ci vogliamo più giocare.

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KEYSTONE Il robot si porta dentro l’inquietant­e fin dall’origine

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