Un festival e la sua Giuria
È un fatto di passione, non è una scienza esatta, soltanto così poteva vincere un film documentario come ‘Dahomey’: mai come stavolta, viva il cinema!
Tremavamo tutti mentre aspettavamo il momento in cui la Giuria di questa Berlinale avrebbe partorito il suo palmarès, e la Giuria non ha tradito il senso di un Festival attento alla politica. I giurati Lupita Nyong’O (Presidente), Brady Corbet, Ann Hui, Christian Petzold, Albert Serra, Jasmine Trinca, Oksana Zabuzhko hanno scelto come Orso d’Oro il film ‘Dahomey’ di Mati Diop, che con i suoi 67 minuti rientra a stento in qualche categoria di lungometraggi. Certo, si tratta di un film didattico, molto televisivo e irrisolto, ma non si spara sulla Croce Rossa, come oggi succede da certe parti.
Fatta questa scelta estrema, di tutto ci si poteva attendere da questa Giuria, compreso il dimenticarsi di un film come ‘Vogter’ (Sons) di Gustav Möller, dato per favorito da molti. Meritatissimo l’Orso d’Argento, Gran premio della Giuria, a ‘Yeohaengjaui Pilyo’ (A Traveler‘S Needs), un film che vive dell’idea di cinema di Hong Sangsoo, un’idea di magistrale artigianato esaltato da una curata scelta di recitazione. La Giuria ha posto un gradino sotto il film coreano il francese ‘L’ Empire’ di Bruno Dumont, premiando con l’Orso d’Argento Premio della Giuria l’intrattenibile idea umoristica di uno spettacolo intelligente ed esaltante, un film libero, d’autore.
La scelta come Miglior regista di Nelson Carlos De Los Santos Arias per il suo strano e diverso ‘Pepe’ premia il coraggio di un giovane autore che, evidentemente senza mezzi adeguati, ha sfidato con la sua originalità film decisamente più ricchi. Il premio per la miglior interpretazione (a Berlino non esiste quello femminile e maschile) è andato a Sebastian Stan per ‘A Different Man’ di Aaron Schimberg, un omaggio dedicato ai maschi e agli Stati Uniti: c’erano infatti troppe attrici magnifiche che hanno invaso gli schermi berlinesi, difficile era sceglierne una, così si è puntato all’uomo. Per poi premiare una donna come attrice non protagonista: Emily Watson, suora cattolica crudele in ‘Small Things Like These’ di Tim Mielants, un film non da premio. Pochissimo ha raccolto invece Matthias Glasner per il suo splendido ‘Sterben’ (Dying), solo un Orso d’Argento alla sceneggiatura per un film che meritava l’oro.
Per la fotografia un Orso è andato a Martin Gschlacht per il suo lavoro in ‘Des Teufels Bad’ (The Devil’s Bath) degli austriaci Veronika Franz & Severin Fiala, una fotografia scura e cupa che rende il film visibile al cinema ma difficilmente in altri modi. Ogni Giuria poi lavora come può, il cinema è un fatto di passione non è una scienza esatta, anche se il cinema come industria vorrebbe lo fosse. Ma quando mai allora potrebbe vincere un festival un film documentario come ‘Dahomey’ di Mati Diop! W il cinema!
Regola non scritta
Quando i media pubblici e privati cercano i nomi, i prodotti e non il cinema, non avere nomi e prodotti è un peso insopportabile, e le defezioni della stampa sono state quest’anno evidenti. Eppure abbiamo visto molti film interessanti e importanti, non capolavori magari, ma come spiegava un maestro della critica qual’era Giovanni Grazzini: se da un Festival riesci a portarti a casa cinque film, è un buon festival. In concorso ne abbiamo applauditi diversi e ci siamo accorti che ne abbiamo trovati ben più di cinque, dunque un grande Festival. Con noi porteremo sicuramente ‘Sterben’ (Dying) di Matthias Glasner, un film di una profondità umana incredibile, un ritratto della nostra epoca indispensabile, uno spettacolo totale che tiene inchiodati per tre ore di emozioni; ‘Vogter’ (Sons) di Gustav Möller, un film di una durezza psicologica che annienta, portandoti a uscire dalla tua morale per accettare di essere sconfitto, incredibilmente potente con un’attrice, Sidse Babett Knudsen, da segnare sul taccuino; ‘Yeohaengjaui pilyo’(A Traveler’s Needs) del solito grande Hong Sangsoo, un film sornione e delicato con una Isabelle Huppert che insegna ancora una volta a recitare.
Diaspore, amore e documentari
E ancora ‘ Keyke mahboobe man’ (My Favourite Cake) della coppia iraniana composta da Maryam Moghaddam e Behtash Sanaeeha, un film delicato e rispettoso sull’amore da anziani, indispensabile in un mondo che malamente invecchia; ‘ Shambhala’ di Min Bahadur Bham, un film magico su una madre e i figli terroristi e un’impossibile nuora incinta dalla violenza dei maschi dell’Isis, opera che segna e incanta; ‘Black Tea’ di Abderrahmane Sissako che racconta la diaspora africana in Asia attraverso quella umana e singolare di un uomo che s’inquieta per quello che è. Abbiamo apprezzato la freschezza di un film leggero com ‘Langue Étrangère’ di Claire Burger, una storia d’amore adolescenziale delicata e profonda; quella di un documentario come ‘Architecton’ di Victor Kossakovsky sulla cementificazione del Pianeta e ‘L’Empire’ di Bruno Dumont, il film più folle e divertente del festival, una fantascienza fuori da ogni schema. E se questo era il Concorso, fuori resteranno indimenticabili: ‘ Shikun’ di Amos Gitai con una immensa Irène Jacob, a dire di Israele oggi attraverso Ionesco, senza pietà, e ‘Averroès & Rosa Parks’ di Nicolas Philibert, un film-documentario sul mondo dei matti oggi, persone abbandonate dalle istituzioni che sopravvivono grazie al volontariato e alla propria folle voglia di esistere. Questo è il Cinema di un bel Festival! Grazie Carlo!