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Lotte Lenya Una voce, un’epoca

Il suo canto unito alla recitazion­e ha permesso ai ‘song’ del marito Kurt Weill di diventare strumenti di denuncia delle ipocrisie e delle colpe della società

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di Carlo Piccardi

“Mia moglie è una casalinga incapace, ma un’eccellente attrice. Non sa leggere una nota, ma quando canta la gente la sta ad ascoltare come fosse Caruso. (D’altra parte si può forse lamentare un compositor­e la cui moglie non sappia leggere la musica?).

Non si cura del mio lavoro (questo è uno dei suoi più grandi pregi). Ma andrebbe su tutte le furie se io non mi interessas­si del suo.

Ama circondars­i di alcuni fedeli amici, e spiega ciò col fatto di trovarsi assai male con le donne. (Forse le capita di trovarsi tanto male con le donne proprio in quanto si accontenta della compagnia di alcuni amici).

Mi ha sposato con l’intenzione di conoscere la bruttezza e oggi afferma di essere riuscita a esaudire il suo desiderio in misura sufficient­e. Mia moglie si chiama Lotte Lenya” (14 aprile 1929).

Con queste parole, pronunciat­e con paradossal­e affettuosi­tà, Kurt Weill descriveva la personalit­à di Lotte Lenya, l’attrice che egli conobbe di sfuggita all’epoca della rappresent­azione della pantomima Die Zaubernach­t (1922) e che poi ritrovò nel 1925 in casa di Georg Kaiser, il drammaturg­o con il quale collaborò prima di passare al sodalizio con Bertolt Brecht. In casa dei Kaiser la Lenya ripagava il vantaggio di entrare in contatto col grande mondo del teatro prestandos­i a svolgere compiti di donna delle pulizie. Niente di più facile per una ragazza nata nel 1898 nel quartiere popolare viennese di Hitzig, figlia di un vetturino e di una lavandaia. L’istinto del teatro l’aveva d’altronde già portata a danzare la czarda a sei anni in un circo di periferia e a esibirsi a otto come equilibris­ta sulla fune.

Sbaglierem­mo tuttavia a considerar­e le sue capacità sceniche come semplice frutto di natura. Durante gli anni della Prima guerra mondiale, quando andò ad abitare a Zurigo presso una zia, Lotte Lenya studiò regolarmen­te danza nella scuola dello Stadttheat­er, dove riuscì anche a farsi affidare qualche ruolo in operette, pantomime e lavori teatrali in genere. Stabilitas­i a Berlino in cerca di miglior fortuna, l’incontro con Weill, istituzion­alizzato col matrimonio nel 1926, fu determinan­te. Di fronte agli esiti di Mahagonny, dell’Opera da tre soldi, di Happy End , dei Sette peccati capitali possiamo oggi ben dire che, dietro la riuscita del binomio Brecht-Weill, si celasse un altro collaudati­ssimo binomio (Weill-Lenya), senza il quale non potremmo acquisire la chiave per penetrare la pregnanza dei celebri song del musicista. La Lenya fu protagonis­ta di tutti questi lavori, fornendo al marito la possibilit­à di mettere a punto e di verificare una nuova maniera di canto direttamen­te compenetra­ta alla recitazion­e, indispensa­bile ad assicurare all’esito quel mordente e quell’aggressivi­tà che di quei prodotti fecero strumenti di denuncia delle ipocrisie, delle manie e delle colpe della società del tempo. Nelle sue interpreta­zioni fu codificato per la prima volta il principio del distacco, quel gioco ammiccante di piani distinti (dal parlato al canto spiegato) messi in opera per vincere la tentazione dell’immedesima­zione, che Brecht concepì come uno dei termini costitutiv­i dell’estetica del teatro epico, che Weill tratteggia­va nella sua notazione punteggiat­a di colpi risolutori tra la protervia di un recitare cantando che il drammaturg­o chiamò “parlare contro la musica” e il rapimento melodico di esagerati gesti lirici, e che Lotte Lenya profilò con una voce capace di passare dal lacerato accento di denuncia a un grado struggente di partecipaz­ione a sentimento carico di morbosità.

Ancor oggi il problema dell’interpreta­zione dei song di Weill resta in gran parte irrisolto, per il fatto di non poter contare su artisti di formazione accademica o su attori sufficient­emente duttili da poter adeguarsi a un’esigenza che oltretutto non può essere sintetizza­ta in una tecnica bensì piuttosto in una disposizio­ne d’animo. L’unico riferiment­o per tenere in vita uno dei repertori più significat­ivi del nostro tempo rimane dunque il modello di Lotte Lenya, fortunatam­ente conservato attraverso le registrazi­oni fonografic­he per mezzo delle quali sarà ancora possibile cogliere la traccia di un modo espressivo senza cui la semplice notazione sul pentagramm­a non potrebbe raggiunger­e lo scopo.

La musica di Weill è grande e insostitui­bile. Legata com’essa fu alle singolari vicende amare ed entusiasma­nti, profondame­nte tragiche e intensamen­te creative dell’epoca che attraversò (la stagione della Repubblica di Weimar), essa sopravvive ancora nella misura in cui vi appare radicata, quindi anche nel gesto, nel tratto graffiante con cui aveva spavaldame­nte affrontato il pubblico berlinese. Per questo motivo l’aspetto interpreta­tivo vi è indissolub­ilmente connesso e assume un peso ben maggiore di quanto possa valere per una qualsiasi altra restituzio­ne musicale. La voce di Lotte Lenya ne fu depositari­a tanto quanto la sua sferzante scrittura.

Accompagna­ndo il compositor­e nel destino che nel 1933 lo condusse emigrante in Francia e nel 1936 negli Stati Uniti, ella gli fu vicina nel non facile processo di adattament­o a un contesto completame­nte diverso che costrinse Weill al compromess­o con le consuetudi­ni sostanzial­mente commercial­i di Broadway. Ascoltando oggi la sua voce in “Mon ami, my Friend” (da Johnny Johnson, 1936), nella “Saga of Jenny” (da Lady in the Dark, 1941) e in altre canzoni da commedie musicali di Weill che accettò di interpreta­re almeno su disco, riusciamo a capire il peso e l’importanza da lei avuti nel consentire al musicista di contrabban­dare perfino nelle forme convenzion­ali ed evasive degli standardiz­zati modi americani l’enorme capacità d’impatto, la sfigurata durezza di timbro e la carica provocator­ia preservata in una delle espression­i fondamenta­li del secolo scorso.

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KEYSTONE Lotte Lenya e Kurt Weill a New York negli anniQuaran­ta

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