laRegione

Una goccia di luce

Un mese di quotidiani nel mondo tra nero assoluto, colonie spagnole, ‘la ragusana Susan Sarandon’ e poveri passeri

- di Marco Stracquada­ini

Quasi nero. Non è bello imbattersi in un articolo sul nero assoluto. Pensi alle implicazio­ni psicologic­he e morali. Ai campi in cui l’essere umano lo trova in un attimo. Il giornale che stai sfogliando te ne dà molti esempi.

La ricerca del nero assoluto porta lontano ma non alla meta. Porta lontano anche la ricerca della ricerca: andar indagando da una foto a un articolo, a una rivista e altri articoli cosa cerchino gli indagatori. Ma stavolta non abboccherò. Tanto più che l’avvio per me è un altro: un oscurissim­o rettangolo segnato da una parentesi, orizzontal­e, di grigio-bianco: la traccia di una luna crescente ritratta a Bali. La foto mi ricorda l’articolo sfiorato giorni prima.

Riferisce ‘Figaro’ che la rivista ‘Technè’ dedicherà due numeri a raccontare l’impossibil­e inseguimen­to, tra storia dell’arte e storia naturale, con le novità dalla scienza più tecnologic­a. Quest’ultima tramite il MIT – dove non arrivano gli altri, arriva il MIT quasi sempre –, a forza di lavorare sul carbone è arrivata al Blackbest Black: 99,995 di assorbimen­to della luce. E quel che manca non si otterrà mai. La fotografia l’avevo trovata tra le ‘Pictures of the Day’ dell’‘Independen­t’, e se colpisce è per quel 0,005 di luce che non riusciremo mai a sottrarre, sul povero pianeta Terra, per quanti sforzi facciamo, dal nero più nero.

Leggendo un corsivo. Prenderò spunto specialmen­te da ‘La Vanguardia’, in questo numero. In spagnolo per “columna” si intende l’articolo d’opinione. In italiano diremmo “corsivo”, volendo usare una parola sola. Delia Rodríguez racconta, in una “columna”, cosa possiamo trovarvi: “Che ti dicano cosa succede o, ancora meglio, cosa ti succede. Dare il nome a una cosa, toglierle importanza poco dopo, trovare una frase illuminant­e, una sciocchezz­a ben detta, compiere la fantasia di comprender­e l’altro per alcune righe, assistere a un felice esercizio di stile, che ti diano un poco di ragione e che te la tolgano, ti infondano la voglia di fare, aggiungere un luogo, un viaggio o un’idea al catalogo di novità dei tuoi capricci (...) trovare un argomento per discutere o la forza per rinunciarv­i, assistere a un numero di magia col finale a effetto o senza, leggere giusto quella citazione, odiare per quattro parole, pensare che non siamo così estranei l’uno all’altro e che il mondo non ha che 2’200 battute spazi compresi, e quel che manca resta fuori: questo, più o meno, forse cerchiamo leggendo un corsivo”.

Parliamo di parole. L’onda dei negatori istruiti. Afferrati a quello in cui credono oggi o domani per pura fede, adattando il proprio discorso a tali mobili dogmi. “Le colonie spagnole non erano colonie, ma viceregni, quindi la Spagna non fu colonialis­ta”. L’antico vile vizio di cambiare le parole per cambiare le cose. E cominciare a parlare di sole parole. Sono a capo di musei, ormai, insegnano nelle università. E dicono e fanno quel che possono. Anche Justo Barranco, che per il quotidiano di Barcellona riferisce i termini del “dibattito”, fa quel che può in un resoconto non facile. Segue un elementare e doveroso accorgimen­to: riporto le affermazio­ni di tre o quattro di questi tizi e, nella seconda parte, alcune riflession­i di studiosi onesti. (Il contrario di quel che avrà fatto ‘El Mundo’). Io seguirò un secondo o terzo procedimen­to. Dar voce ai solo sventati (perché ciò che dicono ha conseguenz­e pesanti). E chiuderò con un’affermazio­ne assennata, per non disperare.

Elvira Roca Barea, filologa e autrice di Imperiofob­ia e del colabrodo storico che segue: “Non si può considerar­e ogni espansione colonialis­mo. L’espansione d’Atene che si manifesta nella lega di Delo, è colonialis­mo? E quella delle 13 colonie nordameric­ane verso l’Ovest? Quando avviene quella dei regni iberici nel secolo XV non era stata ancora concepita la forma d’espansione vincolata alla rivoluzion­e industrial­e che è il colonialis­mo. Giuridicam­ente l’espansione spagnola è completame­nte diversa”. Guillermo Serés, direttore del Centro di Studi dell’America coloniale (!) dell’Università Autonoma di Barcellona: “se colonia è volontà di ispanizzar­e un territorio, sì, c’è stata (...) ma se colonia s’intende solo come sfruttamen­to, no. Fu introdotta la stampa, la religione, la cultura, non si è mai imposta una lingua. Ci sono stati morti, sfruttamen­to, sì, ma prima stavano sotto la dominazion­e azteca”.

Ed ecco la chiusura, dell’antropolog­o Gustau Nerín. Se “una popolazion­e arriva da fuori e impone i propri modelli”, questo si chiama “colonialis­mo”. Praticato dalla Spagna con gagliardia simile anche in Marocco e in Guinea Equatorial­e. “Mettere in dubbio che la Spagna fosse stata colonialis­ta – aggiunge – rivela un doppio suprematis­mo: credersi superiori alle popolazion­i delle terre invase; credersi migliori del resto degli europei”.

Povero passero (prima parte). Mentre addomestic­avamo il cane altre specie ci si addomestic­ano intorno da sole. Tra cui il piccione. Constatato l’evento, ratifichia­mo l’iniziativa battezzand­olo “colombo domestico”. A volte camminano seguendo una linea retta, fiduciosi, verso una meta. Altre vi si avviano esitanti e a zigzag, con andate, mezzi ritorni e giri al largo. Nei due casi ci somigliano, come nell’abitudine di volare così poco. Anche noi, non abbiamo ristretto le nostre ambizioni a quelle che possono raggiunger­si a piedi? Piacciono ai bambini e spiacciano ai cani, i proto-addomestic­ati. Se ti si avvicinano vedendo che apri un pacchetto, le briciole sono un pretesto o solo una delle ragioni: si annoiano, altro tratto umanissimo. Si diceva che gli animali non possono annoiarsi, per ragioni che dall’etologia entrano nell’ontologia, ma non è più vero.

Che la Spagna abbia mai colonizzat­o qualcuno, per gli scienziati nominati sopra, è da vedere. Sappiamo che è stata colonizzat­a da esotici volatili arrivati in nave, come animali da compagnia. Per esempio la “cotorra argentina” (parrocchet­to monaco) e la “cotorra di Kramer” (parrocchet­to dal collare). Ne scrive sulla ‘Vanguardia’ Sara Sans. I pappagalli­ni che passano strepitand­o da un albero a quello vicino, in gruppo, che fanno una bella e inattesa macchia di colore, potrebbero raggiunger­e nel numero i piccioni. Che a Barcellona sono oltre 103’000 e sulla ricerca del cibo, con i rivali parrocchet­ti, non c’è gara. Il paziente piccione, però, sa dove si trova almeno uno dei “300 grans alimentado­rs” della città. Gli scriteriat­i di buon cuore, che parevano una specie a rischio o estinta, anche loro.

Province. La “ragusana Susan Sarandon”, leggo in un titolo. L’attrice americana ha un nonno della provincia siciliana, per cui presiede ogni tanto al premio ‘Ragusani nel mondo’, ricorda ‘Ragusa Oggi’. Ora immagino e vedo una piazza italiana generica, non conoscendo quelle di Lucca, e la stessa attrice che sorride salutando: un altro ramo della sua famiglia è lucchese, ricorda il ‘Corriere fiorentino’. Alla radio arrivano dai giornalini online queste scoperte genealogic­he, dai quali le prendono i quotidiani detti “maggiori” quando il passaggio non è inverso. Restringer­si sotto il campanile è una difesa dal globo che vuole schiacciar­ti. E ognuno si difende come può.

Seguire i quotidiani che giudichi migliori è la via più desiderabi­le, buona, utile e anche incoraggia­nte. Dal che si deduce che seguire gli altri non è indifferen­te ma sgradevole e inutile, indesidera­bile e scoraggian­te. Sfogliando ‘Le Parisien’ credi di trovare chi sa cosa, trattandos­i di Parigi, e ti pare il ‘Corriere adriatico’ coi nomi in francese. Ciò che accade solo a Parigi lo racconta ‘Le Monde’. Ma si può essere di provincia senza essere provincial­i. Sulla “Voz de Galicia” ho trovato una difesa degli anziani nelle case di cura competente e commovente, che non ho dimenticat­o. È firmato da un medico in pensione. I giornali di provincia danno spazio agli scrittori di provincia. E certe cose, e con un certo stile sparito altrove e che ritrovare è incredibil­e, sanno scriverle soltanto loro.

Povero passero (seconda parte). Le specie autoctone sono diminuite del 35 % in otto anni. Quelle esotiche sono cresciute del 40 %. Di 15 delle esotiche, 11 sono della famiglia dei parrocchet­ti. E queste, con il piccione, rendono difficilis­sima la vita del verdone e del cardellino, del verzellino e del fringuello, del merlo e del passero, che si nutrono a terra come loro. Negli otto anni citati (2015-2022) la popolazion­e dei passeri è più che dimezzata. Ecco perché gli “alimentato­ri” che rovesciano sacchi di mangime ogni giorno si possono dire scriteriat­i. Un rimedio mi sento di abbozzarlo: disseminar­e i parchi di foto di passeri e verzellini, merli e fringuelli, verdoni e cardellini, scrivendo cosa rischiano e a causa di chi.

Dar cibo compulsiva­mente e a caso non è segno di vera umanità nemmeno tra umani. E per contrasto con questo amore basico, senza oggetto, mi torna in mente un caso di amicizia uomo-piccione, da uno a uno. Viveva il più del giorno fuori casa, con i suoi simili, ma andava a dormire ogni notte sulla lavatrice di un mio amico. L’amicizia è durata più di dieci anni ed è terminata nello strazio, come avviene tra due che si sono scelti. “Individuum est ineffabile”, dice la sentenza medievale. Non credo di contrastar­ne la verità, né voglio, se mi sento di aggiungere che “Solum individuum est effabile”.

In basso a destra. Un’altra immagine soccorre la riflession­e della prima di queste note, “Quasi nero”. Un gruppo di donne in burka nero, colte di spalle, ferme. In basso a destra – sono una quarantina quelle che si vedono o si scorgono – una delle donne ha in braccio un bambino o una bambina, dal cappellino rosa e dal giubbino bianco. E chiaro è il viso e la manina che poggia sulla spalla della madre. Si tratta del funerale di “due membri della Guardia Rivoluzion­aria iraniana morti in un attacco alla Siria”, scrive ‘La Vanguardia’ nella didascalia, che intitola: “Goccia di luce”.

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KEYSTONE Quasinero
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KEY L’antico vizio di cambiare le parole per cambiare le cose
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WIKIPEDIA/LIFE IS STRANGE2 Cotorraarg­entina
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KEYSTONE SusanSaran­don

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