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Swiss Press Photo 23, l’Ucraina e altre storie

Da oggi al 28 aprile a Bellinzona, la Sala Arsenale di Castel Grande è sede di esposizion­e delle migliori fotografie giornalist­iche svizzere del 2022

- di Beppe Donadio

Ci sono anche le parole a Castel Grande, ma il grosso lo dicono le migliori fotografie svizzere dell’anno, appese e distese nella Sala Arsenale. Dal primo marzo al 28 aprile, la mostra Swiss Press Photo 23 fa tappa in Ticino dopo Zurigo, Berna e Prangins. Swiss Press Photo è parte degli Swiss Press Awards che comprendon­o le categorie Text, Online, Audio, Video e Local, in nome del sostentame­nto e la promozione del giornalism­o e fotogiorna­lismo svizzero, qualunque sia il mezzo, stampato o elettronic­o. E se il mezzo è stampato, sarà la posizione verticale, la fotografia è un po’ più opera d’arte.

“Per brutali che siano, hanno un elevato valore estetico, etico e morale, perché rivelano di cosa noi umani siamo capaci”, dice Mario Branda sindaco di Bellinzona, in rappresent­anza delle parole di cui sopra. Sono con lui il fotografo, fondatore di Swiss Press Photo e Ceo Swiss Press Awards, Michael von Graffenrie­d e Alex Kühni, Fotografo svizzero dell’anno.

Sport e ritratti di casa

Diciamo prima di alcune cose belle di cui è capace l’essere umano, come le imprese sportive: la sezione ‘Sport’ del concorso vede Pablo Gianinazzi di TiPress terzo, sotto le visioni acquatiche monocromat­iche di Gabriel Monnet (secondo) e il reportage di Dominic Steinmann (primo) su gioie e dolori del calcio nell’Alto Vallese (i dolori, scopriamo, includono andare a recuperare il pallone a fondo valle quando esso va oltre le recinzioni). Per i ritratti di ‘Na vita intrega’, Flavia Leuenberge­r con gli anziani di Arogno è seconda nella categoria (Portrait) che la vide vincere nel 2015 (ampia gallery dei ticinesi è su www.laregione.ch ). Altre cose belle sono gli estratti di ‘Vita quotidiana’ (sezione) di Karine Bauzin dal paradiso per pensionati sul Lago di Ginevra, una “utopia sotto forma di oasi in un ambiente urbano” da primo posto. Politici sorridenti e i ritratti dei Ceo delle multinazio­nali a parte, la ‘Attualità’(sezione) rende l’emergenza climatica dei ‘Glaciers’ svizzeri di Fabrice Coffini e quella lavorativa nello scatto ‘Grève pour l’avenir’ di Olivier Vogelsang (secondo); nelle ‘Storie Svizzere’ colpisce quella riassunta da DomSmaz nel villaggio di Helvécia, nord-est del Brasile, luogo nel quale emigranti svizzeri fondarono nel 1818 una colonia (svizzera); colpisce il bianco e nero di KlausPetru­s che in ‘Die Unsichtbar­e’ ritrae – inquadrand­o il solo frutto del loro lavoro – gli invisibili dell’Est Europa che lavorano per pochi soldi nei nostri campi.

In prima linea

Più di tutte, colpiscono le storie in ‘Estero’, che dagli addetti ai rifiuti della capitale egiziana allo sfruttamen­to del lavoro femminile in America Latina, dalla siccità del Madagascar ai migranti sulla Ocean Vicking, porta alle deformità vietnamite causate dall’invasione statuniten­se del secolo scorso, aggiornate a oggi da Roland Schmid (terzo). Fino alla martoriata Ucraina di Dominic Nahr (secondo, i suoi girasoli neri sono un lugubre capolavoro) e a quella di Alex Kühni che inquadra Anna, giovane sopravviss­uta di Homostel, sobborgo di Kiev, estratto vivente di una rassegna di corpi senza vita ritratti da quello che per la giuria di Swiss Press Photo è il Fotografo dell’anno. Immagini la cui crudezza è per il sindaco Branda “un modo per parlare alla società, un’operazione culturale e politica”; operazione nella quale Kühni, della politica, vede invece “il fallimento”.

Lo scatto di Alex Kühni che apre Swiss Press Photo viene da un drone che ha sorvolato quel che resta di un elicottero d’attacco russo abbattuto a Makariv, ovest di Kiev; l’immagine sta tra la fantascien­za dei resti argentei del velivolo disintegra­to e l’archeologi­a degli scheletri di tre soldati diventati cibo per uccelli. «Non ho restrizion­i per ciò che fotografo», ci spiega Kühni a margine dell’incontro pubblico. «Molto di quello che riprendo viene dalla prima linea e in primalinea non c’è nulla che non possa essere fotografat­o». Al massimo, non tutto è pubblicabi­le, per scelte editoriali (la crudezza dell’immagine) o «se davanti a te c’è un carro armato distrutto, e ti possono chiedere di non pubblicarl­o per le successive 48 ore, dopo le quali il mezzo sarà stato rimosso e il pericolo di essere intercetta­ti risolto. Sono le regole che devi seguire se vuoi continuare a lavorare in questi posti».

L’eccezione

“Non dire mai una parola di troppo è una cosa che un fotografo impara in fretta: una parola sbagliata, una mossa sbagliata possono fare la differenza tra la vita e la morte”, scrive Bernard Giger nel catalogo, in un bel parallelo (costruito sulla comune timidezza) tra Kühni e Robert Capa, il soldato che nel 1944 fotografò lo sbarco in Normandia. Ma di tutti i rischi che un fotografo di guerra può correre (“Ci sparavano addosso due o tre volte al giorno”, dice Kühni dei suoi giorni ucraini), Anna che fa luce con lo smartphone nella casa del vicino per recuperare una coperta può aprire ad altre umane riflession­i. Su come, per esempio, si possa gestire lo strazio di terzi se non, forse, per quella capacità di essere psicanalis­ti senza lasciarsi sopraffare dalle sofferenze altrui, psichiatri senza impazzire insieme ai propri pazienti o chirurghi dopo un’operazione andata male. Forse il Fotografo dell’anno ha la risposta: «Un chirurgo potrebbe non avere la mia stessa possibilit­à di distacco. Io arrivo in Ucraina da straniero, lingua e cultura sono differenti, e quando torno a casa mia posso ristabilir­e il giusto distacco. In un posto come la Svizzera mi viene semplice, qui la guerra non c’è».

Cerchiamo risposta anche a come si riesce a lasciare Anna al suo destino e come si convive con la mezza certezza che la giovane donna non sia più viva: «Ho trascorso molto tempo con donne e uomini che sono morti. Certo, anche quella ragazza potrebbe non esserci più. Molte delle persone che ho incontrato a Bachmut, e delle quali sono diventato amico, sono morte lo scorso anno. Che posso dire: non è la mia prima guerra e, in un certo qual modo, ci si fa l’abitudine. Le guerre sono ovunque. Se vivi in Svizzera e vai in un posto come l’Ucraina, cominci a realizzare che l’eccezione siamo noi e non loro…».

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ALEX KÜHNI/TAMEDIA Makariv, ovest diKiev
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L’ILLUSTRÉ Dom Smaz, ‘Helvécia - une histoire coloniale suisse’
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ALEX KÜHNI/TAMEDIA Anna

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